Avanti (o) pop! 17. L’apprendistato del letterato

“Lascialo perdere, quello”, mi fece l’organizzatore della serata, a parziale conferma del mio primo sospetto, “è un vecchio rimbambito che ha sempre da ridire su qualsiasi cosa. È un professore di lettere in pensione ma si crede la Sibilla Cumana. In realtà è più una Cassandra, un gufo maledetto che è meglio evitare. Per fortuna partecipa raramente alle manifestazioni letterarie, perché non fa altro che rompere le scatole. Stasera, non so perché abbia deciso di riservarci questo “onore”, ma l’importante è non cogliere le sue provocazioni; in questo modo, vedendosi ignorato, la smette. Lascialo perdere, evitalo come una fastidiosa zanzara.”

Ma, più facile a dirsi che a farsi, io ero rimasto colpito dalle parole del vecchio “gufo”. Così colpito che, dopo aver firmato le dediche di un paio di libri, tornai al mio sardonico interlocutore. Quello, accortosi di aver destato interesse e disappunto, di avermi mosso a viva curiosità con le sue parole, fece per spiegare meglio il proprio pensiero.

“Caro mio, tu sei un autore molto conosciuto, il tuo libro è richiesto, il tuo nome compare sui giornali. La tua notorietà ha raggiunto persino me, che sono abbastanza refrattario a queste cose e mi tengo alla larga da presentazioni ed incontri vari. Aborro la vacuità, la superficialità che regna in questo tipo di manifestazioni spacciate sempre per “eventi”, ma buone soltanto ad ingrassare il già ipertrofico ego degli organizzatori e degli autori presentati. Ciò non toglie che, ogni tanto, vi sia qualche autore meritevole, ma si tratta di casi rari, rarissimi, e poi, proprio perché bravi, certi autori difficilmente sono disposti a farsi turlupinare dai mercanti della promozione culturale. Come ti ripeto, io, per indole, diffido di tutti i fenomeni da baraccone che con i loro salti doppi, piroette ed inchini, esaltano la folla nel gran circo mediatico della nostra penisola culturale. Eppure le sirene di questa giostra letteraria ogni tanto raggiungono anche me se è vero che, affascinato dal loro malioso richiamo, sono venuto qui stasera. Dicevo, in questo momento il tuo nome è abbastanza conosciuto, sei sulla cresta dell’onda, e forse è proprio ciò che cercavi, nevvero?  La pubblicità, beh, sappiamo quale macchina diabolica sia. Infatti anche chi non ha letto il tuo libro, grazie ad uno sforzo di promozione, messa in piedi non so se da te direttamente o dalla tua casa editrice, anche chi non ha mai letto un rigo scritto da te penserà di conoscerti e serberà un’ottima impressione della tua scrittura; e questa impressione positiva, favorita anche dal passaparola, si perpetuerà a lungo.  Il risultato di questo fenomeno, che accomuna te ad altri autori “di moda” in questi ultimi tempi, è la gloria, il successo”.  Io ero perplesso. Infatti presentivo che quelle parole nascondessero altro, preannunciassero un messaggio non certo positivo per me. Sentendomi  indifeso di fronte alla punta velenosa dell’acuminata daga sfoderata dal vecchio, decisi di giocare d’attacco, anticipandone la stoccata.

“Ma professore, se il mio libro è così conosciuto e il mio nome quotato, come lei ha detto, non crede che questo sia dovuto ai contenuti del libro stesso? A che altro sennò?”. E il gufo: “Come ho detto prima, tu godi di un’ottima considerazione presso il pubblico medio dei non lettori e degli “addetti ai lavori”, ma questo è il risultato di un battage pubblicitario messo in atto con indubbia bravura. Hai letto cosa dice Villers de L’isle Adam a proposito della “claque”?  “Ogni successo ha la sua ombra, la sua parte di frode, di meccanismo, di nulla, che si potrebbe chiamare la tattica, l’intrigo, il saper vivere, la Pubblicità. Insomma, la claque!”

Non riuscivo a nascondere la mia insofferenza per quelle parole piene di sarcasmo e disprezzo.  “La claque? Proprio a me? La claque? Lei è veramente indisponente e sfacciato!”. “Non è il caso che ti agiti, Vincenti. Se con questo termine indichiamo quello che comunemente si intende, cioè un pubblico pagato, allora tu non sei colpevole. Ci mancherebbe. Ai tempi di de L’Isle Adam però la macchina pubblicitaria non aveva ancora raggiunto livelli così raffinati di perfezione come oggi. In effetti egli nel suo racconto parla proprio di una prodigiosa scoperta che è la claque meccanica che attraverso applausi finti, grida, scene di entusiasmo, motti salaci, risa, cenni di approvazione, vere e proprie ovazioni, poteva decretare il successo di una rappresentazione teatrale o di un’opera qualsiasi. Ma quello a cui io mi riferisco è tutto un procedimento meschino, diabolico, di cattura del consenso. Pensaci bene. Non hai forse chiesto, appena uscito il tuo libro, a qualcuno dei tuoi colleghi scrittori e giornalisti, di recensirlo? Niente di male, è quello che fanno tutti. Ma poi, non hai chiesto ancora a qualcun altro? E a qualcun altro ancora? Ci sono state davvero delle recensioni spontanee, disinteressate, del tuo libro?  E non hai chiesto, tu o chi per te, a qualche associazione culturale di tenere a battesimo, con la prima presentazione, il tuo libro? E questa associazione non ha poi chiesto a qualcun’altra di fare lo stesso? Dunque è questo che ha messo in moto quel tour che dura ancora.  Allora perché ti meravigli se affermo che, di tutti quelli che hanno assistito alle serate “evento” o che hanno acquistato il libro sollecitati da qualche amico comune o lo hanno avuto da te in omaggio, ben pochi lo hanno letto e ne conoscono davvero il contenuto? Vedi, io, che sono stato qui stasera ed ho acquistato il libro, lo leggerò e lo leggerò davvero perché altrimenti non lo avrei preso. Ma lo leggerò con spirito critico, con acume, con senso della misura, e sta certo che il giudizio che emetterò alla fine sarà vero e sincero. Un giudizio vero e non addomesticato, ipocrita, di convenienza. Sebbene, ripeto, ho degli elementi che mi potrebbero pregiudizialmente far pensare che il libro non sia gran che.”

Io ero sempre più disorientato. “Mah, non…”. Non mi uscivano le parole.

Il vecchio continuò nella sua foga declamatoria: “Ahh… tu dici che non sia diabolico il perverso meccanismo del successo? E quanti mostri produce!  La gente dice: andiamo a vedere quel film di successo, ad ascoltare quel gruppo musicale che è tanto in voga, lo scrittore famoso che ci degna della sua presenza qui a Lecce, magari siamo fortunati e possiamo partecipare della sua scienza infusa! E in ogni caso, potremo dire di aver letto quel tale libro che hanno letto tutti, di aver visto quel film, di aver assistito a quella commedia teatrale, se piace a tutti un motivo ci sarà. Dunque mettiamoci dalla parte di quel politico, di quell’imprenditore,  o di quell’uomo  di successo che è riuscito nel suo campo,  ammiriamolo come fanno tutti, riveriamolo,  almeno non rischiamo di sembrare degli imbecilli!” A quel punto, io venni strattonato dall’organizzatore della serata, il quale afferratomi per la giacca: “Qui ci sono delle deliziose signore in attesa da mezzora per una dedica”, reclamò esagerando, “suvvia, è davvero scortese farle attendere oltre!”.  Così fui trasportato e in quel mentre il vecchio sparì.

Ma ormai il seme del dubbio era stato gettato in me, e come con la sindrome di Stoccolma per il carcerato nei confronti del suo carceriere, nei giorni successivi mi informai su quel professore, dove avesse casa, che zona frequentasse, ed ero intenzionato ad andare a trovarlo, pur sapendo di dovermi aspettare il peggio. Quando lo incontrai per caso, una mattina a Lecce, seduto ad una panchina della Villa Comunale, presi il coraggio a quattro mani, da codardo quel ero, e attaccai bottone.  Gli chiesi del libro. “Ti dirò… che è un libro ben scritto, ma ci ho trovato troppo pathos, ne hai spalmato sulle pagine a intere cucchiaiate come si fa col burro sulle fette biscottate la mattina a colazione; e tutto quello spleen!  Dovresti uscire da un vieto romanticismo nel quale sei rimasto intrappolato dai tempi del Liceo! Troppa ridondanza in quelle pagine, un barocchismo che appesantisce il pur condivisibile messaggio del libro, lo intossica, ne intorpidisce la prosa, facendone scorrere lutulente le parole come quando, senza cernita, il mestolo  raccoglie indistintamente fango e perle.”  Purtroppo, o per fortuna, io mi sentivo perversamente attirato dal vecchio professore, intanto perché mi sembrava incredibile che parlasse in quel modo. Infatti il vecchio si esprimeva davvero con un eloquio così dotto, aulico, altisonante. Egli cioè si esprimeva in forma scritta. Sì, può sembrare un uzzolo o sberleffo quanto affermo, ma è la verità. Quell’uomo si esprimeva come se leggesse da un foglio, non una minima pausa o imprecisione, le parole gli scorrevano in bella forma senza nessun inciampo. Continuò:  “Ma, in questo mondo allo sbando, si sa che le perle vanno ai porci e a noi rimane il fango. Trovo del tutto puerile gridare il proprio dolore al mondo cercando condivisione, solidarietà, adducendo a giustificazione di tale debolezza, purezza di sentimento, sincerità di ispirazione.  Cercare di coinvolgere tutto il mondo nel proprio dolore, renderlo partecipe al vuoto lasciato dalle illusioni perdute, ma è stucchevole! Chi grida il proprio dolore soffre forse di più di chi se ne astiene? Ed anche per quanto riguarda gli elementi soprannaturali qua e là seminati nella narrazione, essi sono elaborati secondo una visione ossianesca che era superata già quando venivano pubblicati i primi romanzi della narrativa gotica ottocentesca. Figuriamoci oggi, come possano apparire anacronistici, e puzzino di plagio,  superfetazione!”

Queste parole furono come delle lame che tagliano il viso.  Ero tramortito, sotto i colpi di quelle rasoiate, inebetito, come un pugile suonato che non trova la forza di rialzarsi dopo il micidiale knock out.

Sentivo dentro una rabbia ribollente e inesplosa. Fui preso un odio viscerale nei confronti del vecchio, ma non capivo ancora che era l’odio per me stesso. E quella, solo una delle tante sberle che avrei preso nell’ambito culturale. Di notte, nella mia mente, l’immagine scontornata del professore mi ritornava e i suoi rugosi tratti si confondevano con quelli del genio alato della letteratura. Andai a leggere i “Racconti crudeli” di Villiers de L’Isle Adam cui aveva fatto cenno nella sua reprimenda. Sentivo come un bisogno di rivalsa e dopo due giorni di furore parossistico, mi misi a scrivere un racconto prendendo spunto proprio dall’autore francese.  De L’Isle Adam aveva messo in epigrafe alla sua opera una citazione, da un altro grande della letteratura d’oltralpe, Rimbaud: “E’ incredibile la enorme quantità di abilità letteraria, di estro, di musicalità, in poche parole di genio, che il destino ha allontanato da me”.  Il racconto narra di un attore che, in preda ad una crisi di nervi per mancanza di successo e fortuna, decide di farla finita.

Ma dopo aver letto, mi accorsi che si trattava di un esperimento di meta- letteratura, cioè di letteratura sulla letteratura, di un esercizio di scrittura, ma dove era l’originalità, l’ispirazione, l’anima? Avevo fatto come i maestri copisti, niente originalità, nessun elemento di interesse per il lettore, niente genio.  Fui tentato per un attimo di seguire l’esempio dell’attore protagonista del mio racconto, di farla finita. La mia stessa vita, il mio faticoso apprendistato, i miei tentativi falliti mi parevano soggetto di una sceneggiatura scritta male, essi stessi parti letterari così simili a quanto avevo letto nei libri degli scrittori romantici. Ne ebbi ripulsa. Non osavo sottoporre al professore i miei scritti perché sapevo che il suo giudizio sarebbe stato parimenti impietoso, anzi forse ancora più negativo di quello prima espresso. Restai così in uno stato di furore omicida misto a depressione, con manie suicide per molto tempo. Forse un anno e più. Comunque continuai sempre a studiare e a scrivere, in quello che Gianluca Virgilio, recensendo un mio libro, ha definito “L’apprendistato del letterato”, che dura quanto la vita, se è vero, per dirla con Eduardo De Filippo, che gli esami non finiscono mai. Nel frattempo, uscì il mio nuovo libro e volli ritornare dal professore per portargliene una copia. Nelle more, avevamo avuto uno scambio di mail, solo qualche cenno di saluto e reciproca cortesia. Ma non avevo ancora avuto modo di andare a trovarlo personalmente. I miei sentimenti erano quanto mai confusi in quel viaggio: un misto fra attesa, come quella dello studente che si presenta all’esame, timor reverentialis, rancore sempre sottotraccia e voglia di rivalsa. Non vi dico lo stupore quando appresi che il vecchio era defunto. Un malore improvviso lo aveva sottratto ai suoi affetti e a questo mondo. È davvero difficile descrivere quello che provai.  Ad un tempo, dispiacere per la sua scomparsa e senso di liberazione, rammarico e sollievo. Che strano essere sono.  Mi meravigliavo quasi di me stesso per il fatto di coltivare sentimenti così contrastanti, stridenti fra loro. “Bene”, ho pensato, “adesso non potrà giudicare più quello che scrivo. Morte ai giudici e vivano gli imputati!”. Perché io mi sono sempre sentito tale, un imputato in attesa di giudizio, per tutta la mia vita. “Morte ai saccenti, ai vecchi tromboni, ai censori, ai gufi!”, ma questo solamente come sfogo di un momento. In realtà, ho sempre ricercato il giudizio di chi ritengo più capace di me, in fondo in fondo so di sperare nella loro approvazione. Il rapporto con il vecchio professore che ho testé riportato è emblematico dei sentimenti che io coltivo per quanti osservano ed analizzano la mia opera con forte spirito critico. Li odio. Se non ci fossero, mi sentirei più libero. Ma è sintomatico che io non cerchi di sfuggire loro, ma anzi mi ci confronti, attenda un giudizio ad ogni mia uscita editoriale, non sentendomi appagato dal consenso di quanti mi incensano e lodano tutto ciò che faccio. E in effetti, cosa io pensi dei cortigiani ho già scritto in altre sedi.

Tuttavia, più volte mi sono chiesto se io non desideri tanto migliorarmi e crescere quanto piuttosto che chi ha più strumenti di me e stronca regolarmente i miei scritti si tolga dalla palle e non interferisca con il mio mondo. Per capire meglio questo processo mentale così contorto e vieppiù capire me stesso, ci vorrebbe l’ausilio di un ottimo psicanalista, ma è indecoroso che questi consulenti chiedano 60 euro (50, senza fattura) a seduta. Una simile spesa sarebbe davvero dannosa per le mie già disastrate finanze. Rivolgo dunque un appello ai professionisti della psicanalisi affinché ribassino le loro parcelle e pratichino prezzi più modici, per venire incontro alla stragrande maggioranza della popolazione che non dispone di grossi mezzi finanziari.

Dicembre 2017

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