Le numerosissime critiche rivolte al professore hanno fatto riferimento al suo (a quanto pare discutibile) percorso professionale e al fatto che, presa alla lettera, questa dichiarazione non tiene conto del fatto che si arriva tardi alla laurea per la riduzione dei fondi per il diritto allo studio, perché molti studenti, privi di sostegno delle famiglie, sono costretti a finanziarsi gli studi con impieghi occasionali, precari e spesso in nero, e perché le Università sono frequentate anche da studenti-lavoratori. Osservazioni, queste, condivisibili che andrebbero più propriamente inquadrate in uno scenario più ampio che attiene ai rapporti fra Università e mercato del lavoro. L’Università italiana ha anche svolto il ruolo (improprio) di “parcheggio”, e continua a svolgerlo. Il che, a differenza di ciò che il prof. Martone pensa, è difficilmente riconducibile al fatto che, in media, i giovani italiani sono poco inclini a sacrifici, e poco motivati allo studio.
La causa è semmai da ricercarsi nell’elevata disoccupazione e, conseguentemente, nella bassa probabilità di trovare impiego, che genera una condizione per la quale al crescere del tasso di disoccupazione cresce il tasso di scolarizzazione. Questa correlazione regge su un fondamento di ‘razionalità’ delle scelte. Si consideri il caso di un singolo individuo posto di fronte alla decisione se iscriversi o meno all’Università, in un contesto nel quale la probabilità di trovare impiego (e un impiego coerente con le qualifiche acquisite) è prossima allo zero. Dato il reddito a sua disposizione, può essere conveniente iscriversi all’Università, dal momento che un titolo di studio aggiuntivo può conferirgli un “vantaggio posizionale” rispetto ai suoi potenziali concorrenti. Nel momento in cui questa scelta è fatta da un numero elevato di individui, la probabilità di trovare impiego resta, per tutti, quella precedente all’acquisizione del titolo di studio. In più, la rapidità del percorso di studi diventa sempre meno rilevante quanto più gli studenti cominciano a maturare aspettative pessimistiche in merito alla loro collocazione nel mercato del lavoro, ovvero quando verificano che i posti disponibili sono molto limitati e i potenziali candidati sono molto numerosi. La certezza di ottenere, nella migliore delle ipotesi, un contratto precario – spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale – costituisce un ulteriore fattore che motiva il ritardo dell’acquisizione del titolo di studio. In fondo, se non altro per ragioni di “status”, può essere preferibile essere studente (anche se fuori corso) piuttosto che disoccupato.
Sul piano empirico, si rileva – su fonte Almalaurea – che il tasso di occupazione dei laureati residenti al Nord è di circa dieci punti maggiore rispetto ai laureati residenti al Sud. Ovviamente nel computo dei “residenti al Nord” si includono anche i giovani meridionali che si sono spostati per studiare o dopo la fine degli studi in cerca di lavoro. Viene anche certificato che al Sud ci vuole più tempo per trovare un lavoro, che due laureati su tre, nel Mezzogiorno, non hanno trovato occupazione a tre anni dal conseguimento del titolo di studio e che la probabilità di trovare impiego è molto più bassa per le donne.
A ciò si aggiunge che, poiché gli studi universitari sono in larga misura finanziati dalle famiglie, le lauree tardive erodono in misura significativa i risparmi e, a seguire, ciò genera una condizione per la quale si rendono disponibili meno fondi per gli investimenti privati. Il che dà luogo a una spirale viziosa: l’aumento della disoccupazione accresce la popolazione studentesca; il che riduce i risparmi e gli investimenti, dunque il tasso di crescita accrescendo, in ultima analisi, ulteriormente la disoccupazione.
Considerando che ben difficilmente le esortazioni del prof. Martone possono avere effetto (dal momento che, al di là di quanto egli esterna, la politica economica fatta con le parole non è molto efficace, o non lo è per nulla), il problema lo si può risolvere in due modi: ponendo le condizioni per un aumento della domanda di lavoro – il che presuppone l’attivazione di politiche per la crescita – o abolendo il valore legale del titolo di studio – se e in quanto si assume che, così facendo, si disincentivino le iscrizioni. Il Governo si sta movendo lungo quest’ultima linea, di fatto accentuando il fenomeno della riduzione delle immatricolazioni già in atto da almeno un triennio. Se anche l’abolizione del valore legale del titolo di studio (o l’”attenuazione” della sua rilevanza, come il Governo si appresta a fare) ha effetti significativi di disincentivo alle immatricolazioni, ci si trova di fronte a una politica miope. A fronte dell’invecchiamento della popolazione (il numero di 19enni si è ridotto del 38% negli ultimi 25 anni), è arduo sperare che la crescita economica – nel lungo periodo – si attivi con una forza-lavoro in età avanzata e poco scolarizzata.
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Gli inganni della “riforma” Gelmini
[in MicroMega online, 27 febbraio 2012]
Il CNRS francese lo definisce il “paradosso italiano”. Riguarda il fatto che, a fronte degli scarsissimi finanziamenti pubblici e privati alla ricerca scientifica, il numero (e la qualità) delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori italiani è significativamente alto. Si calcola che – nel periodo compreso fra il 2004 e il 2006 – il finanziamento pubblico alle Università italiane è stato circa pari all’1.13% del PIL, contro l’1.84% della media europea e che il finanziamento da parte di imprese private è stato pressoché irrilevante. In Italia, sono occupati nel settore della ricerca poco più di 3 lavoratori su mille occupati; in Francia lavorano 8 ricercatori su mille occupati. Fra il 1998 e il 2008, i ricercatori italiani, nel loro complesso, hanno prodotto quasi 380mila pubblicazioni, ponendo il nostro sistema della ricerca all’ottava posizione nel mondo e alla quarta posizione in Europa. I ricercatori italiani più produttivi sono collocati nelle aree delle scienze mediche, matematiche e fisiche, e, in questi settori, nel periodo considerato, le pubblicazioni italiane sono state fra quelle maggiormente citate su scala internazionale. E’ sufficiente questo dato per privare di fondamento la campagna mediatica di delegittimazione dell’Università pubblica italiana che ha preceduto e seguito la c.d. riforma Gelmini, finalizzata a restituire l’immagine di un sistema formativo e della ricerca “malato”: luogo di nepotismo, baronie, privilegi e scarsa produttività.
Un’operazione, questa, funzionale a legittimare una decurtazione del fondo di finanziamento ordinario che dai 702 milioni di euro nel 2010 ha raggiunto, nel 2011, gli 835 milioni, come prescritto nel decreto-legge sul “diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”. E, pure a fronte dell’ulteriore riduzione di fondi, la produttività dei ricercatori italiani non si è ridotta (http://univeritas.wordpress.com/2011/08/24/is-italian-science-declining-anatomia-di-una-bufala/). A ciò si può aggiungere che l’obiettivo della “riforma” di valorizzare il merito, sulla base dei meccanismi di selezione operanti nel mondo anglosassone è un obiettivo molto discutibile. Anche a prescindere dal fatto che le Università americane ottengono finanziamenti pubblici e privati mediamente superiori di circa il 20% a quelli assegnati alle strutture di ricerca italiane, va rilevato – su fonte R.O.A.R.S. – che, nel complesso, la produttività media dei ricercatori americani non è molto maggiore di quella degli italiani. In più – cosa di non poco conto – il sistema formativo statunitense non favorisce (semmai blocca) la mobilità sociale. Su questo aspetto, Italia e USA hanno caratteristiche comuni, essendo il grado di mobilità sociale sostanzialmente identico nei due Paesi.
Viene fatto osservare (http://www2.dse.unibo.it/ichino/gipp_declino_18.pdf) che il paradosso è, almeno in parte, di agevole spiegazione. Prescindendo dalla numerosità di pubblicazioni, si rileva che i top scientists italiani lavorano prevalentemente all’estero e l’elevata qualità della ricerca è in larga misura imputabile al loro impegno, e si sottolinea il fatto che l’Italia non attrae ricercatori. Il problema della “fuga dei cervelli” è un problema rilevante e non recente, ed è, di norma, motivato in considerazione dell’assenza di meccanismi di incentivazione a beneficio dei più meritevoli e delle pratiche “nepotistiche” e “baronali” vigenti nei nostri Atenei.
Va rilevato che la riforma non agisce né sulle pratiche baronali né sulla fuga (e il rientro) di cervelli, potendo semmai accentuare i problemi. Ciò per le seguenti ragioni.
a) La L.240/2010 istituisce la figura del ricercatore a tempo determinato (RTD). Il RTD è reclutato con concorso locale, bandito in regime di autonomia dalle singole sedi. E’ impegnato su un progetto di ricerca del suo supervisore (professore ordinario o associato). La probabilità del rinnovo del contratto è strettamente dipendente dal rispetto delle clausole ‘implicite’ dettate dal professore che ha bandito il posto, e che ne segue l’attività di ricerca. E’ cioè palese che la sua carriera dipende interamente dal rapporto (inevitabilmente) di subordinazione che instaura con il suo ‘datore di lavoro’, ovvero con il “barone” di riferimento. Per onestà intellettuale, chi sostiene questa ‘riforma’ dovrebbe ammettere che, almeno per quanto riguarda questa disposizione, la L. 240/2010 non fa guerra al baronaggio: lo rende semmai ancora più facilmente praticabile.
b) L’obiettivo reale della “riforma” – neppure troppo nascosto – consiste nell’imporre al sistema formativo e della ricerca italiana una (sana?) cura dimagrante. La L.240/2010 è fondata sull’ossessivo richiamo al fatto che la sua attuazione deve avvenire “senza ulteriori aggravi per la finanza pubblica”. A ciò si aggiunge il blocco del reclutamento (diretta conseguenza del taglio dei finanziamenti) e, a latere, il blocco degli stipendi dei dipendenti delle Università fino al 2013. La domanda che occorre porsi è la seguente: in una condizione nella quale, nella migliore delle ipotesi, un giovane italiano possa essere reclutato con contratto a tempo determinato, con stipendio ai minimi livelli, con pochissimi fondi per la ricerca, in sostanziale assenza di libertà di ricerca, è per lui razionale intraprendere la carriera universitaria in Italia? E, per converso, è appetibile un simile percorso per giovani ricercatori non italiani? Non dovrebbero esserci dubbi in merito al fatto che si tratta di una condizione peggiore rispetto alle condizioni di impiego pre-“riforma” (contratti a tempo indeterminato, maggiori fondi per la ricerca, stipendi più elevati). E, dunque, non dovrebbero esserci dubbi in merito al fatto che questa disposizione non può che accentuare la “fuga di cervelli” e ridurre la capacità di attrazione di ricercatori dall’estero.
Non a caso, come registrato
dall’ISTAT, il fenomeno è già in allarmante aumento. Nell’ultimo biennio, su
18mila dottori di ricerca italiani, poco meno di 1.300 (il 7%) sono emigrati
all’estero, con maggiore incidenza di giovani prima residenti al Nord.
Interessante rilevare che l’incidenza della mobilità verso altri Paesi cresce
all’aumentare del livello d’istruzione dei genitori, stabilendo, così, che la
mobilità sociale in Italia è ai livelli minimi. In più, la “fuga di cervelli”
non riguarda solo Paesi esteri: frequente è anche lo spostamento dalle regioni
meridionali a quelle del Nord, con saldo negativo di circa il 20%. Del tutto
marginale è l’”importazione” di ricercatori nel periodo considerato.
Se le politiche formative sono funzionali agli interessi del mondo imprenditoriale (come attesta il plauso che Confindustria ha sempre accordato al Ministro Gelmini), questi risultati non destano sorpresa. Il taglio dei finanziamenti si spiega agevolmente con il fatto che il nostro sistema produttivo, fatto in larga misura da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, scarsamente internazionalizzate, non ha bisogno né di lavoro altamente qualificato, né di innovazioni. In tal senso, la formazione e la ricerca sono un puro costo. Ciò è tanto più vero nel Mezzogiorno, data la fragilità del suo sistema produttivo. In più, le Università meridionali sono penalizzate nella distribuzione dei fondi pubblici, a seguito della disposizione che li riduce (per tutti) ma li riduce in modo ‘lineare’, non tenendo conto delle c.d. variabili di contesto (tasso di disoccupazione, PIL pro-capite). A ciò si aggiunge che le Università meridionali, dato il contesto nel quale operano, ben difficilmente possono ottenere fondi da imprese private, e molto difficilmente possono ulteriormente accrescere le contribuzioni studentesche. Con ogni evidenza, una sede universitaria non ha gli strumenti per incidere né sul tasso di disoccupazione né sul PIL pro-capite del territorio nel quale è collocata. Dunque, non è suo ‘demerito’ essere localizzata in una regione periferica. Da cui: se, come ossessivamente ripetuto, la “riforma” è finalizzata a introdurre criteri meritocratici, non è chiara la logica per la quale le Università del Sud sono penalizzate indipendentemente dal ‘merito’ di chi lì lavora.
A ben vedere. le politiche formative impostate secondo una logica “di mercato” inevitabilmente accentuano le divergenze regionali (in Italia, e fra l’Italia e i Paesi centrali dello sviluppo capitalistico), generando trasferimenti di produttività nelle aree più ricche (e conseguente impoverimento delle aree più povere) e prefigurando uno scenario – peraltro già sotto i nostri occhi – di un Paese a doppia velocità con Università a doppia velocità.
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Il “paradosso italiano”
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 17 marzo 2012]
Il CNRS francese lo definisce il “paradosso italiano”. Riguarda il fatto che, a fronte degli scarsissimi finanziamenti pubblici e privati alla ricerca scientifica, il numero (e la qualità) delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori italiani è significativamente alto. Si calcola che – nel periodo compreso fra il 2004 e il 2006 – il finanziamento pubblico alle Università italiane è stato circa pari all’1.13% del PIL, contro l’1.84% della media europea e che il finanziamento da parte di imprese private è stato pressoché irrilevante. In Italia, sono occupati nel settore della ricerca poco più di 3 lavoratori su mille occupati; in Francia lavorano 8 ricercatori su mille occupati. Fra il 1998 e il 2008, i ricercatori italiani, nel loro complesso, hanno prodotto quasi 380mila pubblicazioni, ponendo il nostro sistema della ricerca all’ottava posizione nel mondo e alla quarta posizione in Europa. I ricercatori italiani più produttivi sono collocati nelle aree delle scienze mediche, matematiche e fisiche, e, in questi settori, nel periodo considerato, le pubblicazioni italiane sono state fra quelle maggiormente citate su scala internazionale. E’ sufficiente questo dato per privare di fondamento la campagna mediatica di delegittimazione dell’Università pubblica italiana che ha preceduto e seguito la c.d. riforma Gelmini, finalizzata a restituire l’immagine di un sistema formativo e della ricerca “malato”: luogo di nepotismo, baronie, privilegi e scarsa produttività.
Un’operazione, questa, funzionale a legittimare una decurtazione del fondo di finanziamento ordinario che dai 702 milioni di euro nel 2010 ha raggiunto, nel 2011, gli 835 milioni, come prescritto nel decreto-legge sul “diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”. E, pure a fronte dell’ulteriore riduzione di fondi, la produttività dei ricercatori italiani non si è ridotta. A ciò si può aggiungere che l’obiettivo della “riforma” di valorizzare il merito, sulla base dei meccanismi di selezione operanti nel mondo anglosassone è un obiettivo molto discutibile. Anche a prescindere dal fatto che le Università americane ottengono finanziamenti pubblici e privati mediamente superiori di circa il 20% a quelli assegnati alle strutture di ricerca italiane, va rilevato – su fonte R.O.A.R.S. – che, nel complesso, la produttività media dei ricercatori americani non è molto maggiore di quella degli italiani. In più – cosa di non poco conto – il sistema formativo statunitense non favorisce (semmai blocca) la mobilità sociale. Su questo aspetto, Italia e USA hanno caratteristiche comuni, essendo il grado di mobilità sociale sostanzialmente identico nei due Paesi.
Viene fatto osservare che il paradosso è, almeno in parte, di agevole spiegazione. Prescindendo dalla numerosità di pubblicazioni, si rileva che i top scientists italiani lavorano prevalentemente all’estero e l’elevata qualità della ricerca è in larga misura imputabile al loro impegno, e si sottolinea il fatto che l’Italia non attrae ricercatori. Il problema della “fuga dei cervelli” è un problema rilevante e non recente, ed è, di norma, motivato in considerazione dell’assenza di meccanismi di incentivazione a beneficio dei più meritevoli e delle pratiche “nepotistiche” e “baronali” vigenti nei nostri Atenei.
Va rilevato che la riforma non agisce né sulle pratiche baronali né sulla fuga (e il rientro) di cervelli, potendo semmai accentuare i problemi. Ciò per le seguenti ragioni.
a) La L.240/2010 istituisce la figura del ricercatore a tempo determinato (RTD). Il RTD è reclutato con concorso locale, bandito in regime di autonomia dalle singole sedi. E’ impegnato su un progetto di ricerca del suo supervisore (professore ordinario o associato). La probabilità del rinnovo del contratto è strettamente dipendente dal rispetto delle clausole ‘implicite’ dettate dal professore che ha bandito il posto, e che ne segue l’attività di ricerca. E’ cioè palese che la sua carriera dipende interamente dal rapporto (inevitabilmente) di subordinazione che instaura con il suo ‘datore di lavoro’, ovvero con il “barone” di riferimento. Per onestà intellettuale, chi sostiene questa ‘riforma’ dovrebbe ammettere che, almeno per quanto riguarda questa disposizione, la L. 240/2010 non fa guerra al baronaggio: lo rende semmai ancora più facilmente praticabile.
b) L’obiettivo reale della “riforma” – neppure troppo nascosto – consiste nell’imporre al sistema formativo e della ricerca italiana una (sana?) cura dimagrante. La L.240/2010 è fondata sull’ossessivo richiamo al fatto che la sua attuazione deve avvenire “senza ulteriori aggravi per la finanza pubblica”. A ciò si aggiunge il blocco del reclutamento (diretta conseguenza del taglio dei finanziamenti) e, a latere, il blocco degli stipendi dei dipendenti delle Università fino al 2013. La domanda che occorre porsi è la seguente: in una condizione nella quale, nella migliore delle ipotesi, un giovane italiano possa essere reclutato con contratto a tempo determinato, con stipendio ai minimi livelli, con pochissimi fondi per la ricerca, in sostanziale assenza di libertà di ricerca, è per lui razionale intraprendere la carriera universitaria in Italia? E, per converso, è appetibile un simile percorso per giovani ricercatori non italiani? Non dovrebbero esserci dubbi in merito al fatto che si tratta di una condizione peggiore rispetto alle condizioni di impiego pre-“riforma” (contratti a tempo indeterminato, maggiori fondi per la ricerca, stipendi più elevati). E, dunque, non dovrebbero esserci dubbi in merito al fatto che questa disposizione non può che accentuare la “fuga di cervelli” e ridurre la capacità di attrazione di ricercatori dall’estero.
Non a caso, come registrato
dall’ISTAT, il fenomeno è già in allarmante aumento. Nell’ultimo biennio, su
18mila dottori di ricerca italiani, poco meno di 1.300 (il 7%) sono emigrati
all’estero, con maggiore incidenza di giovani prima residenti al Nord.
Interessante rilevare che l’incidenza della mobilità verso altri Paesi cresce
all’aumentare del livello d’istruzione dei genitori, stabilendo, così, che la
mobilità sociale in Italia è ai livelli minimi. In più, la “fuga di cervelli”
non riguarda solo Paesi esteri: frequente è anche lo spostamento dalle regioni
meridionali a quelle del Nord, con saldo negativo di circa il 20%. Del tutto
marginale è l’”importazione” di ricercatori nel periodo considerato.
Se le politiche formative sono funzionali agli interessi del mondo imprenditoriale (come attesta il plauso che Confindustria ha sempre accordato al Ministro Gelmini), questi risultati non destano sorpresa. Il taglio dei finanziamenti si spiega agevolmente con il fatto che il nostro sistema produttivo, fatto in larga misura da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, scarsamente internazionalizzate, non ha bisogno né di lavoro altamente qualificato, né di innovazioni. In tal senso, la formazione e la ricerca sono un puro costo. Ciò è tanto più vero nel Mezzogiorno, data la fragilità del suo sistema produttivo. In più, le Università meridionali sono penalizzate nella distribuzione dei fondi pubblici, a seguito della disposizione che li riduce (per tutti) ma li riduce in modo ‘lineare’, non tenendo conto delle c.d. variabili di contesto (tasso di disoccupazione, PIL pro-capite). A ciò si aggiunge che le Università meridionali, dato il contesto nel quale operano, ben difficilmente possono ottenere fondi da imprese private, e molto difficilmente possono ulteriormente accrescere le contribuzioni studentesche. Con ogni evidenza, una sede universitaria non ha gli strumenti per incidere né sul tasso di disoccupazione né sul PIL pro-capite del territorio nel quale è collocata. Dunque, non è suo ‘demerito’ essere localizzata in una regione periferica. Da cui: se, come ossessivamente ripetuto, la “riforma” è finalizzata a introdurre criteri meritocratici, non è chiara la logica per la quale le Università del Sud sono penalizzate indipendentemente dal ‘merito’ di chi lì lavora.
A ben vedere, le politiche formative impostate secondo una logica “di mercato” inevitabilmente accentuano le divergenze regionali (in Italia, e fra l’Italia e i Paesi centrali dello sviluppo capitalistico), generando trasferimenti di produttività nelle aree più ricche (e conseguente impoverimento delle aree più povere) e prefigurando uno scenario – peraltro già sotto i nostri occhi – di un Paese a doppia velocità con Università a doppia velocità.
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L’Università “riformata” e il blocco della mobilità sociale
[“Economia e politica”, 24 marzo 2012]
L’ultimo Rapporto Almalaurea certifica che, nell’anno accademico 2011-2012, il numero di immatricolati nelle Università italiane rappresenta meno del 60% del totale dei diplomati nell’anno precedente, attestando il valore più basso di iscrizioni degli ultimi trenta anni. Nel Mezzogiorno, nello stesso anno, solo il 50% dei diplomati si è iscritto all’Università. Le cause del fenomeno sono molteplici e in larghissima misura riconducibili alla “riforma” Gelmini, all’ideologia che ne è a fondamento e ai provvedimenti a questa correlati.
La “riforma” Gelmini nasce dal presupposto che l’Università italiana è malata, luogo di baronie, nepotismo[1], poco produttiva. Da questo presupposto viene fatta derivare un’architettura normativa colbertistica (la 240/2010, con un numero ancora non precisato di decreti attuativi) il cui obiettivo dichiarato è introdurre criteri meritocratici nel funzionamento delle Istituzioni universitarie. All’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca) è demandato l’arduo compito di quantificare il merito. Va detto che il presupposto è sbagliato e che l’obiettivo della “riforma” – e dei provvedimenti associati a questa – è ben altro che quello dichiarato.
Il presupposto è sbagliato per quello che il CNRS francese definisce il “paradosso italiano”. Riguarda il fatto che, a fronte degli scarsissimi finanziamenti pubblici e privati alla ricerca scientifica, il numero (e la qualità) delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori italiani è significativamente alto. Si calcola che – nel periodo compreso fra il 2004 e il 2006 – il finanziamento pubblico alle Università italiane è stato circa pari all’1.13% del PIL, contro l’1.84% della media europea e che il finanziamento da parte di imprese private è stato pressoché irrilevante. In Italia, sono occupati nel settore della ricerca poco più di 3 lavoratori su mille occupati; in Francia lavorano 8 ricercatori su mille occupati. Fra il 1998 e il 2008, i ricercatori italiani, nel loro complesso, hanno prodotto quasi 380mila pubblicazioni, ponendo il nostro sistema della ricerca all’ottava posizione nel mondo e alla quarta posizione in Europa[2].
Il vero obiettivo della “riforma” è andare incontro alle esigenze di gran parte del sistema industriale italiano, che di laureati non ha bisogno: dequalificare e depotenziare il sistema formativo[3]. Sia sufficiente richiamare il fatto che, su fonte Almalaurea, la domanda di lavoratori laureati sul totale dei lavoratori assunti in Italia è stata, nel 2011, del 12.5%, contro il 31% negli Stati Uniti, e in riduzione rispetto agli anni precedenti, con significative differenze regionali. Si rileva, infatti, che il tasso di occupazione dei laureati residenti al Nord è di circa dieci punti maggiore rispetto ai laureati residenti al Sud. Ovviamente nel computo dei “residenti al Nord” si includono anche i giovani meridionali che si sono spostati per studiare o dopo la fine degli studi in cerca di lavoro. Viene anche certificato che al Sud ci vuole più tempo per trovare un lavoro, che due laureati su tre, nel Mezzogiorno, non hanno trovato occupazione a tre anni dal conseguimento del titolo di studio e che la probabilità di trovare impiego è molto più bassa per le donne.
Ed è del tutto evidente che, in una logica di “mercato” e di breve periodo, il finanziamento alla ricerca scientifica in un’economia popolata da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e scarsamente internazionalizzate è un puro costo.
Una prima conclusione che si può trarre è la seguente: il calo delle immatricolazioni dipende i) dalla delegittimazione dell’Istituzione (risulta, cioè, sempre meno appetibile iscriversi all’Università, dipinta come luogo di baronaggio, nepotismo, nella quale è scarsa la qualità della didattica e della ricerca), ii) dalla riduzione quantitativa e qualitativa dei servizi offerti agli studenti, con contributi studenteschi in aumento – diretta conseguenza dei tagli al sistema formativo – e iii) soprattutto dal fatto che le imprese italiane esprimono una bassa domanda di lavoro qualificato. In più, l’altissima probabilità di ottenere, nella migliore delle ipotesi, un contratto precario – spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale – costituisce un ulteriore fattore che motiva la rinuncia agli studi[4].
In sostanza, e per quanto ciò possa apparire paradossale in prima approssimazione, le politiche formative messe in atto negli ultimi anni hanno generato una condizione per la quale studiare non conviene. Con una specificazione rilevante, per quanto ovvia. Un elevato titolo di studio costituisce un pre-requisito per carriere rapide e appetibili, ma solo per giovani che provengono da famiglie che, per status e reddito, possono garantire ai propri figli un adeguato posizionamento nel mercato del lavoro. Va rilevato, a riguardo, che coloro che magnificano il sistema formativo statunitense non tengono conto del fatto che, nel complesso, la produttività media dei ricercatori americani non è molto maggiore di quella degli italiani (v. www.roars.it). In più – cosa di non poco conto – il sistema formativo statunitense non favorisce (semmai blocca) la mobilità sociale. Su questo aspetto, Italia e USA hanno caratteristiche comuni, essendo il grado di immobilità sociale sostanzialmente identico nei due Paesi, come certificato dall’OCSE, e il più alto fra i principali Paesi industrializzati.
A ciò si aggiunge il fatto che le politiche di austerità realizzate nel corso dell’ultimo triennio, riducendo i redditi disponibili soprattutto delle famiglie più povere, e soprattutto nelle aree periferiche, hanno reso sempre più difficile sostenere il costo degli studi, così che studiare è sempre più oneroso. In più, come è stato efficacemente messo in evidenza (http://www.roars.it/online/?p=5213), il proposito governativo di abolire (o “attenuare”) il valore legale del titolo di studio – oltre a presentare difficoltà rilevanti di ordine giuridico – è del tutto inefficace per gli obiettivi che si propone e potrebbe avere il solo effetto di disincentivare ulteriormente le immatricolazioni alle Università.
Il Governo Monti ha prontamente recepito le indicazioni europee in merito al perseguimento del rigore finanziario. Non si può dire invece, al momento, che abbia, con la medesima tempestività, recepito le raccomandazioni UE relative all’aumento della dotazione di capitale umano e, dunque, alla promozione della scolarizzazione[5]. L’inerzia, su questa materia, desta preoccupazione. In un’ottica di medio-lungo periodo, disporre di poca forza-lavoro qualificata, in una condizione nella quale la popolazione continua a invecchiare (il numero di 19enni si è ridotto del 38% negli ultimi 25 anni), comporta riduzioni della capacità innovativa e del potenziale di crescita del sistema, con ulteriore peggioramento della competitività delle nostre imprese e ulteriore accentuazione del divario fra l’economia italiana (e ancor più meridionale) e le aree centrali dello sviluppo capitalistico.
[1] Un fenomeno, questo, che innanzitutto nessun accademico negherebbe, che la gran parte della comunità accademica giudica come prassi censurabile ed eticamente inammissibile, che nuoce innanzitutto alla comunità accademica stessa, e che è da condannare senza appelli. Sorprende però che quasi nessuno faccia pubblicamente notare che l’Italia è un Paese familista, e che il familismo in Italia (e non solo nel Mezzogiorno) è un dato strutturale, che coinvolge pressoché tutti i settori della sua vita pubblica e larga parte delle attività private..
[2] Per un approfondimento, sia consentito rinviare al mio articolo “Gli inganni della ‘riforma’ Gelmini”(http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-inganni-della-riforma-gelmini./)
[3] Il che si è realizzato con una decurtazione del fondo di finanziamento ordinario che dai 702 milioni di euro nel 2010 ha raggiunto, nel 2011, gli 835 milioni, come prescritto nel decreto-legge sul “diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”. Si rinvia a http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/luniversita-che-piace-a-confindustria/
[4] O anche il ritardo dell’acquisizione del titolo di studio. In fondo, se non altro per ragioni di “status”, può essere preferibile essere studente (anche se fuori corso) piuttosto che disoccupato.
[5] L’Unione europea si dà l’obiettivo di raggiungere, entro il 2020, una percentuale di popolazione con laurea (nella fascia d’età 30-34 anni) pari al 40%. Ad oggi, questa percentuale è, in Italia, ferma al 19%.
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Chi valuterà i valutatori?
[in “MicroMega” online, 23 aprile 2012]
A seguito dell’approvazione della L.240/2010 (la c.d. riforma Gelmini) le strutture di ricerca italiane sono oggetto di valutazione, sulla base di un esercizio – denominato VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca) – affidato all’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR) e finalizzato a fornire una valutazione di ciò che i Dipartimenti universitari hanno prodotto nel periodo 2004-2010. I risultati saranno utilizzati per effettuare una ripartizione dei fondi pubblici finalizzata a premiare le Università nelle quali lavorano i docenti più ‘meritevoli’. E’ agevole intuire che non si tratta di una questione che riguarda esclusivamente gli accademici, poiché disporre di maggiori finanziamenti significa poter offrire agli studenti maggiori e migliori strutture, e maggiore quantità e migliore qualità della offerta didattica.
Occorre chiarire preliminarmente che il sistema universitario italiano nel suo complesso è già stato oggetto di valutazione, da parte, in particolare, del CNRS francese e dell’ARWU (l’Academic Ranking of World Universities). Stando a queste valutazioni, risulta, nel primo caso, che la ricerca scientifica italiana è, per quantità e qualità, collocata al quarto posto in Europa e all’ottavo posto nel mondo: nel secondo caso, si certifica che le Università italiane, nel loro complesso, sono collocate al dodicesimo posto su scala globale. Ciò a fronte del fatto che, come rilevato dall’OCSE, la spesa pubblica e privata per la ricerca scientifica si è assestata, in Italia a meno dello 0,9% del PIL contro una media dell’1,5% dei principali Paesi industrializzati. Dunque, a dispetto di quanto si è voluto far credere prima dell’approvazione della cosiddetta riforma Gelmini, i ricercatori italiani non sono affatto improduttivi. Anzi, almeno in alcuni ambiti disciplinari, le Università italiane sono fra le più produttive e qualificate in Europa.
Appare poi discutibile il fatto che, in una condizione di palese sottofinanziamento dei centri di ricerca, si destini un ammontare stimato a circa 300 milioni di euro per valutarli. Tale, infatti, sembra essere il costo di funzionamento dell’ANVUR. Il condizionale è qui doveroso dal momento che si tratta di una stima non ufficiale (su fonte ROARS), e tuttavia sufficientemente attendibile se si considera che saranno oggetto di valutazione 108.000 “prodotti della ricerca”, 1.700 strutture, 64.000 ricercatori. Non vi è dubbio che si tratta di un’impresa titanica, che, peraltro, viene condotta in tempi molto rapidi e, dunque, con inevitabili (e rilevanti) errori o imprecisioni nella scelta dei criteri di valutazione. I quali non sono esclusivamente quantitativi, essendo previsto che una quota delle pubblicazioni complessivamente censite dall’ANVUR sia oggetto di peer-review, ovvero di “revisione fra pari” derivante dalla diretta lettura dell’articolo o della monografia (v. http://www.anvur.org/sites/anvur-miur/files/autocandidaturereferee.pdf). Occorre chiedersi, a riguardo, cosa possa spingere un numero consistente di studiosi – che l’Agenzia vuole prevalentemente non italiani – a candidarsi per valutare, laddove previsto, un numero così elevato di pubblicazioni, anche in considerazione del fatto che molte di queste sono state già oggetto di peer-review, e anche in considerazione del fatto che si tratterebbe di un’attività puramente volontaria.Per dar conto delle criticità del modello di valutazione, si può considerare che le strutture di ricerca saranno valutate oggi secondo criteri e parametri che l’ANVUR stabilisce oggi, ma che verranno utilizzati per dare punteggi a ciò che si è fatto nel periodo 2004-2010, quando questi criteri e parametri erano del tutto ignoti ai ricercatori. E per dar conto dell’enorme difficoltà dell’impresa, può essere sufficiente ricordare un’analoga esperienza fatta in Australia, dove, dopo una lunga sperimentazione di modelli di valutazione, si è stabilita l’impossibilità di strutturare un modello di valutazione sufficientemente ‘oggettivo’ e ampiamente condiviso dalle Associazioni Scientifiche.
Le imprecisioni del modello ANVUR – in larga misura imputabili alla eccessiva velocità con la quale l’agenzia sta procedendo – contribuiscono a generare un atteggiamento di diffusa ostilità nei confronti dell’operazione che si sta compiendo. Ciò soprattutto a ragione dell’utilizzo di criteri bibliometrici, finalizzati a quantificare il ‘merito’. La ricerca bibliometrica ha da tempo messo in evidenza che l’uso di criteri basati su soli indicatori quantitativi rischia di penalizzare la ricerca di frontiera, di omologarla, e di indurre comportamenti conformisti e opportunistici (si veda, fra gli altri, http://siba2.unile.it/sinm/4sinm/interventi/fig-talam.htm). Tali rilievi valgono in modo palese per alcuni settori della ricerca – prevalentemente in ambito umanistico e nell’ambito delle scienze sociali – ma da alcuni anni sono oggetto di approfondimento e occasione di ripensamento anche nei settori delle cosiddette scienze ‘dure’: matematica, fisica, ingegneria[1].
Considerate queste criticità, occorre chiedersi a cosa possa servire questa operazione. Il responsabile della VQR, Sergio Benedetto, in un’intervista rilasciata a Repubblica il 4 febbraio scorso, ha dichiarato: “Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra research university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa. Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta”[2]. Si badi che, ai sensi del decreto istitutivo dell’ANVUR, questa operazione – di natura propriamente politica – non rientra fra i suoi compiti istituzionali (v. www.anvur.org). In ogni caso, si tratta di un obiettivo molto discutibile per le seguenti ragioni.
1) E’ chiaro che il modello di riferimento è quello anglosassone, ovvero un modello nel quale il sistema della formazione e della ricerca presenta limiti rilevanti e, come messo in evidenza, blocca (o comunque non favorisce) la mobilità sociale[3]. Ciò soprattutto a ragione del fatto che l’accesso alle research universities – e, in particolare, a quelle ritenute più prestigiose – ha un costo altissimo, ed è noto che – soprattutto per gli studenti per i quali le borse di studio sono insufficienti e che provengono da famiglie con basso reddito – ciò tende ad accompagnarsi a un rilevante (e preoccupante) aumento della richiesta di mutui per finanziarsi gli studi. E’ stato rilevato a riguardo (http://www.kunstler.com/blog/) il rischio di massicce insolvenze negli USA, in una condizione nella quale i mutui richiesti dagli studenti (in alcuni casi, pari a circa 100mila dollari pro-capite) non potranno essere rimborsati in considerazione del fatto che, in regime di crisi, riducendosi la domanda di lavoro (anche di lavoro qualificato) e i salari, i redditi futuri degli studenti oggi indebitati potrebbero essere insufficienti per il rimborso.
2) Il progetto potrebbe funzionare pienamente solo a condizione di abolire i concorsi pubblici per l’accesso alla docenza universitaria, così che le singole sedi potrebbero reclutare i professori che ritengono più meritevoli in un assetto competitivo nel quale gli stipendi verrebbero differenziati fra sedi universitarie e sarebbero oggetto di contrattazione fra singoli docenti e strutture intenzionate a reclutarli. Ma questa prospettiva è, a legislazione vigente, sostanzialmente irraggiungibile per il vincolo che lega il docente all’Ateneo al quale afferisce attraverso il proprio budget. In altri termini, chi intende trasferirsi in altra Università deve lasciare le risorse di cui dispone (e quelle che ne hanno consentito il reclutamento) in quella di provenienza: il che obbliga la sede che lo accoglie a mettere a disposizione risorse aggiuntive, con il che la mobilità dei docenti è significativamente disincentivata e, con la normativa attuale, il proposito di differenziare le sedi universitarie creando vere research universities (con possibilità di reclutare i migliori) è irraggiungibile.
Al fondo della presunta oggettività della valutazione, sembra di poter rilevare l’obiettivo di acquisire maggiori finanziamenti – e di essere accreditate come sedi di serie A – da parte di strutture di ricerca nelle quali lavorano professori che possono contare su un elevato potere economico e politico. Si osservi che il potere del quale queste strutture dispongono non è necessariamente correlato al merito scientifico dei ricercatori, per due ragioni. In primo luogo, come rilevato supra, il merito scientifico è oggi certificato dall’ANVUR – dunque, “dall’alto” e con modalità discutibili – e potrebbe non corrispondere al merito effettivo (che deriva, in ultima analisi, dal riconoscimento che la comunità accademica dà a una ricerca pubblicata, in una prospettiva spesso di lungo periodo). In secondo luogo, una delle principali caratteristiche del sistema universitario italiano riguarda il fatto la buona ricerca è coltivata in una molteplicità di sedi, secondo un modello che viene definito di “eccellenze diffuse”.
Non sembra, dunque, se questa interpretazione è corretta, che l’operazione ANVUR sia né neutrale né che necessariamente premi i migliori. Sembra piuttosto che la corsa alla valutazione – resa urgente dalla rilevante riduzione dei finanziamenti al sistema universitario – risponda all’obiettivo di ridistribuire finanziamenti a vantaggio delle sedi universitarie che risulteranno inevitabilmente “di eccellenza” solo perché i criteri che “dall’alto” l’ANVUR ha decretato come oggettivi le faranno risultare tali. Per evitare che, come ipotizzato da più parti, l’operazione sia interpretata come un’operazione puramente politica, sarebbe saggio avviare una riflessione più meditata sui criteri e i parametri idonei per la VQR, in accordo con le Associazioni Scientifiche.
[1] Si osservi che, se anche si accoglie la tesi che è a fondamento della c.d. riforma Gelmini (ovvero che le Università italiane sono luogo di baronie, nepotismo e scarsa produttività), sarebbe stato più che sufficiente, oltre che molto utile e sufficientemente rapido, “limitarsi” alla identificazione di zone di completa inefficienza, calcolando la produttività dei ricercatori (intesa come numero di pubblicazioni in rapporto agli anni di servizio), e affinando, con maggior tempo a disposizione, i criteri di valutazione del merito, in necessaria condivisione con le Associazioni Scientifiche.
[2] Si segnala che, nei giorni scorsi, è stato varato il programma A.V.A. (http://www.anvur.org/sites/anvur-miur/files/dlgs_19_del_27_01_2012.pdf), che si muove lungo la direzione tracciata dal prof. Benedetto.
[3] Su questo punto rinvio al mio articolo “L’Università ‘riformata’ e il blocco della mobilità sociale”, su www.economiaepolitica.it.
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Valutazione farsa per declassare le Università
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 28 aprile 2012]
Il dibattito sulla valutazione della ricerca scientifica in Italia è estremamente rilevante ed è da salutare con favore il fatto che Quotidiano abbia ospitato interessanti interventi sul tema. Si rende, così, di pubblico dominio ciò che fino a qualche mese fa era oggetto di discussione solo nell’ambito della comunità dei professori universitari, e che riguarda i numerosi studenti dell’Università del Salento e le loro famiglie. L’oggetto del contendere è il primo effettivo esercizio di valutazione del sistema universitario nazionale. L’esercizio – denominato VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca) – è affidato all’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR) ed è finalizzato a fornire una valutazione di ciò che i Dipartimenti universitari hanno prodotto nel periodo 2004-2010. I risultati saranno utilizzati per effettuare una ripartizione dei fondi pubblici finalizzata a premiare le Università nelle quali lavorano i docenti più ‘meritevoli’. E’ agevole intuire che non si tratta di una questione che riguarda esclusivamente gli accademici, poiché disporre di maggiori finanziamenti significa poter offrire agli studenti maggiori e migliori strutture, e maggiore quantità e migliore qualità della offerta didattica.
Occorre chiarire preliminarmente che il sistema universitario italiano nel suo complesso è già stato oggetto di valutazione, da parte, in particolare, del CNRS francese e dell’ARWU (l’Academic Ranking of World Universities). Stando a queste valutazioni, risulta, nel primo caso, che la ricerca scientifica italiana è, per quantità e qualità, collocata al quarto posto in Europa e all’ottavo posto nel mondo: nel secondo caso, si certifica che le Università italiane, nel loro complesso, sono collocate al dodicesimo posto su scala globale. Ciò a fronte del fatto che, come rilevato dall’OCSE, la spesa pubblica e privata per la ricerca scientifica si è assestata, in Italia, prima delle massicce decurtazioni operate dal Ministro Gelmini, a meno dello 0,9% del PIL contro una media dell’1,5% dei principali Paesi industrializzati. Dunque, a dispetto di quanto si è voluto far credere prima dell’approvazione della cosiddetta riforma Gelmini, i ricercatori italiani non sono affatto improduttivi. Anzi, almeno in alcuni ambiti disciplinari, le Università italiane sono fra le più produttive e qualificate in Europa.
Appare poi alquanto singolare il fatto che il Governo italiano riduca i fondi per la ricerca e, al tempo stesso, ne destini un ammontare stimato a circa 300 milioni di euro per valutare la stessa. Tale, infatti, sembra essere il costo di funzionamento dell’ANVUR. Il condizionale è qui doveroso dal momento che si tratta di una stima non ufficiale (su fonte ROARS), e tuttavia sufficientemente attendibile se si considera che saranno oggetto di valutazione 108.000 “prodotti della ricerca”, 1.700 strutture, 64000 ricercatori. Non vi è dubbio che si tratta di un’impresa titanica, che, peraltro, per impulso del Governo, va fatta in tempi molto rapidi e, dunque, con inevitabili (e rilevanti) errori o imprecisioni nella scelta dei criteri di valutazione. Per dar conto delle criticità del modello di valutazione, si può considerare che le strutture di ricerca saranno valutate oggi secondo criteri e parametri che l’ANVUR stabilisce oggi, ma che verranno utilizzati per dare punteggi a ciò che si è fatto nel periodo 2004-2010, quando questi criteri e parametri erano del tutto ignoti ai ricercatori. E per dar conto dell’enorme difficoltà dell’impresa, può essere sufficiente ricordare un’analoga esperienza fatta in Australia, dove, dopo circa cinque anni di sperimentazione di modelli di valutazione, si è stabilita l’impossibilità di strutturare un modello di valutazione sufficientemente ‘oggettivo’ e ampiamente condiviso dalle Associazioni Scientifiche.
Le imprecisioni del modello ANVUR contribuiscono a generare un atteggiamento di diffusa ostilità nei confronti dell’operazione che si sta compiendo. Pressoché tutti i documenti redatti dalle Associazioni scientifiche che lo criticano premettono che è opportuno che la ricerca sia valutata, salvo poi rilevare le criticità del modo in cui si valuta. Va, tuttavia, osservato che il dibattito rischia di avvitarsi su sé stesso, dal momento che non esiste alcun criterio scientifico per fornire una valutazione oggettiva di un articolo scientifico. Ciò discende da una considerazione più generale che attiene al fatto che non esiste nessuna metodologia che consenta di quantificare il “merito”. A ciò si può aggiungere che qualunque attività di valutazione è distorsiva nel senso che orienta l’attività di ricerca e, in tal senso, è per sua stessa natura (e indipendentemente dai criteri adottati), non pluralistica. Da questo punto di vista, non sorprende il fatto che alcuni commentatori abbiano rilevato che la VQR soggiace a una logica puramente politica, finalizzata a relegare in secondo piano le “voci critiche”. Il che vale maggiormente per alcuni settori della ricerca – prevalentemente in ambito umanistico e nell’ambito delle scienze sociali – e meno in altri (i settori delle cosiddette scienze ‘dure’: matematica, fisica, ingegneria), nei quali i criteri ANVUR sono convenzionalmente già utilizzati. Ma, va da sé, il fatto che siano utilizzati su basi convenzionali, non li rende automaticamente esenti da critiche.
Al di là degli aspetti tecnici della questione, occorre chiedersi se, ad oggi, l’Università italiana ha davvero bisogno di essere valutata, ovvero se è questa la priorità. La domanda potrebbe apparire stravagante, soprattutto se calata in un contesto nel quale l’impellenza di valutare è diffusamente avvertita come cruciale. Eppure è una domanda che appare rilevante dal momento che il sistema della ricerca italiano, nel suo complesso, è già valutato positivamente in sede internazionale; dal momento che il dibattito sulle politiche formative in Italia è interamente declinato sul tema della valutazione; dal momento che l’ANVUR costa; dal momento che, anche per effetto dell’attesa dei pareri ANVUR su alcuni decreti attuativi della “riforma” Gelmini e del conseguente blocco del reclutamento, l’Istituzione è in completa paralisi. Sarebbe stato più che sufficiente, oltre che molto utile, “limitarsi” alla identificazione di zone di completa inefficienza, calcolando la sola produttività dei ricercatori (intesa come numero di pubblicazioni in rapporto agli anni di servizio), e affinando, con maggior tempo a disposizione, i criteri di valutazione del merito, in necessaria condivisione con le Associazioni Scientifiche. I ritmi serratissimi che l’ANVUR si è data (circa 40 pareri e documenti redatti in meno di un anno) lasciano pensare che, per chi oggi guida le politiche formative in Italia (Confindustria e Bocconi in primis), è di massima urgenza “americanizzare” il sistema, andando rapidamente alla certificazione di Università di serie A e di serie B, con queste ultime ulteriormente sottofinanziate. Sembra, dunque, che al fondo dei tecnicismi dell’ANVUR, e dietro la retorica della valutazione, si gioca una partita di portata molto ampia, che riguarda l’appropriazione di finanziamenti, e l’accreditamento in serie A delle sedi nelle quali lavorano, da parte di “cordate” di docenti universitari con elevato potere economico e politico. Non si tratta di una mera congettura: il responsabile della VQR, Sergio Benedetto, in un’intervista rilasciata a Repubblica il 4 febbraio scorso, ha dichiarato: “Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa. Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta”. Il fatto che ciò vada oltre i compiti istituzionalmente assegnati all’ANVUR poco conta. Dopo tutto, in nome dell’emergenza anche il rispetto della normativa vigente può passare in secondo piano.
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L’Università ai tempi della spending review
[in “MicroMega” online, 14 luglio 2012]
Fatti salvi possibili interventi correttivi, peraltro tempestivamente sollecitati dal Consiglio Universitario Nazionale, la “spending review” inciderà sull’Università pubblica su due aspetti: il blocco del reclutamento e l’aumento delle contribuzioni studentesche. Per quanto riguarda il primo aspetto, si dispone che – senza ridurre ulteriormente i finanziamenti alle Università pubbliche – le Università potranno utilizzare le risorse delle quali dispongono come meglio credono tranne che per nuove assunzioni (http://www.roars.it/online/?p=9839#more-9839). Per quanto riguarda il secondo aspetto, si abolisce il vincolo del 20% del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) come limite alla tassazione degli studenti.
Si tratta di due provvedimenti che si inseriscono coerentemente lungo la linea della “cura dimagrante” imposta all’Università pubblica a seguito delle massicce decurtazioni di fondi che hanno accompagnato la c.d. riforma Gelmini. La domanda che occorre porsi è dunque: perché da almeno quattro anni il sistema formativo e della ricerca è considerato un inutile aggravio per le finanze pubbliche? Si osservi che non è possibile rispondere appellandosi alla (presunta) necessità di mettere in atto politiche di austerità, dal momento che la decurtazione di fondi imposta alle Università pubbliche è iniziata ben prima dell’attuazione di queste ultime.
Si può partire da una constatazione. La ‘riforma Gelmini’, di fatto, è stata costruita intorno a due criteri, in larga misura ereditati dalle precedenti (ma più modeste) riforme: formazione e ricerca devono avere un riscontro di breve periodo e soprattutto devono rispondere a una logica, per così dire, di mercato, stando alla quale ciò che conta è che il sistema formativo produca laureati immediatamente occupabili. A ciò si è aggiunta una massiccia campagna mediatica di delegittimazione dell’Istituzione, che ha contribuito a legittimare una rilevantissima decurtazione di fondi. Su queste basi, diviene razionale ridurre il finanziamento della ricerca scientifica, dal momento che, per assunto, questa è gestita secondo criteri baronali (e, dunque, non meritocratici), così come diviene irrazionale spendere più denaro pubblico per potenziare l’offerta didattica, dal momento che l’Università italiana produce laureati che, nella gran parte dei casi, non servono alle imprese.
Mentre la prima argomentazione è tutta da dimostrare (e può essere vera per singoli casi), la seconda argomentazione corrisponde al vero. Su fonte Almalaurea, si registra che dal 2004 al 2010 la percentuale di lavoratori con alto livello di istruzione assunti dalle imprese italiane si è costantemente ridotta, in controtendenza rispetto a tutti gli altri Paesi dell’eurozona. Si osservi che questo fenomeno non è imputabile alla crisi in corso ed è, dunque, da ritenersi strutturale. A ciò si può aggiungere il drastico calo delle immatricolazioni nelle Università italiane e l’elevato numero di abbandoni: fenomeni evidentemente motivati dal fatto che molti giovani italiani hanno imparato che studiare non conviene. Alcuni dati possono dar conto dell’entità del fenomeno: il CNVSU- Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario – ha evidenziato che, nell’anno accademico 2010-2011, si sono immatricolati in Università italiane meno di 6 individui su 10 giovani diplomati. Nel Rapporto OCSE 2010 (“Education at a Glance”) si legge che il numero degli studenti universitari che conclude il percorso di studi si aggira attorno al 30%. Si osservi che ciò accade in un contesto nel quale è già modesto il numero di immatricolati e di laureati. L’Eurostat rileva che, a riguardo, l’Italia è ben al di sotto della media europea: nel 2011 la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro in età compresa fra i 30 e i 34 anni in Italia si è attestato, in Italia, al 20,3%, a fronte di una media europea del 34,6%, con Paesi che superano il 40% (Gran Bretagna, Francia e Spagna). Si può poi ricordare che la Commissione Europea raccomanda a tutti i Paesi membri l’adozione di misure che agevolino l’aumento del numero di laureati, portandolo almeno al 40% nel 2020. Con crescita demografica pressoché nulla e costante riduzione del numero di abbandoni, appare molto verosimile prevedere che questo obiettivo non solo non verrà raggiunto, e che da questo ci si allontanerà molto rapidamente.
Come è stato messo in evidenza (http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/luniversita-che-piace-a-confindustria/; http://www.roars.it/online/?p=9255), il problema italiano deriva dal fatto che le nostre imprese – in gran parte di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate e poco innovative – non esprimono una rilevante domanda di lavoro qualificato, con il risultato che un numero consistente e crescente di giovani italiani con elevato livello di istruzione viene assunto in condizione di sottoccupazione intellettuale o resta disoccupato o emigra.
Su fonte Almalaurea, si registra che la capacità attrattiva dei nostri atenei è notevolmente bassa – solo il 3.3% degli studenti iscritti provengono dall’estero – mentre è in notevole aumento il numero di studenti italiani che migrano verso Università estere.L’Italia è fra i pochissimi Paesi OCSE nel quale il numero degli studenti che emigra verso università di altri Paesi è superiore al numero di quelli che accoglie.La fondazione “Migrantes” stima che, al 2011, sono oltre 60.000 gli studenti italiani in Università estere, dei quali circa 18.000 partecipano a programmi Erasmus.
Non vi è dubbio che disinvestire nella ricerca significa porre una grave ipoteca sulla crescita futura. Ma vi è di più. Il combinato della ‘riforma Gelmini’ e delle disposizioni della spending review rischia di generare una spirale perversa che si articola in questo modo. La decurtazione di fondi alle Università italiane (così come il blocco del reclutamento, in una condizione di esponenziale aumento dei pensionamenti) peggiora la qualità dei servizi offerti, con conseguente perdita di valore del titolo di studio. Ciò accresce la convenienza, da parte delle imprese italiane, a non assumere laureati, con due esiti: cresce il numero di abbandoni (e si riducono le immatricolazioni) e, contestualmente, aumenta il numero di iscrizioni in Università estere. Con ogni evidenza, il primo fenomeno riguarda individui provenienti da famiglie con basso reddito, mentre il secondo riguarda giovani provenienti da famiglie con reddito elevato. La combinazione di questi due fenomeni genera due esiti, entrambi di segno negativo per l’economia italiana.1. Come è statomesso in evidenza (http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/luniversita-riformata-e-il-blocco-della-mobilita-sociale/), dal momento che una percentuale rilevante di giovani con basso reddito rinuncia agli studi, ciò contribuisce a ridurre il grado di mobilità sociale, in una condizione nella quale il grado di mobilità sociale in Italia è, insieme alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, il più basso fra i Paesi OCSE.2. Le immatricolazioni all’estero costituiscono un trasferimento netto di potenziale produttivo – oltre che di reddito monetario – a svantaggio dell’economia italiana, generando un meccanismo perverso stando al quale i risparmi delle famiglie ricche italiane finanziano, in ultima analisi, la crescita economica di altri Paesi (dal momento che, i flussi di rientro in Italia sono pressoché nulli). Occorre aggiungere che, poiché l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello con la più diseguale distribuzione del reddito, e, dunque, quello dal quale possono partire i più ingenti flussi migratori di studenti (oltre che di ricercatori) verso Università estere, vi è ragionevolmente da attendersi che questa spirale sia destinata ad amplificarsi, con effetti pressoché inevitabili di aumento delle diseguaglianze sociali, di aumento dei divari regionali e di riduzione del tasso di crescita.
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Cosa fa (e dove sbaglia) il governo per i giovani precari e istruiti
[in “MicroMega” online, 27 luglio 2012]
Mentre si moltiplicano le voci che danno per imminente la deflagrazione dell’Unione Monetaria Europea, è partita la c.d. fase 2 della politica economica del Governo (la fase delle politiche per la crescita), attraverso il “Decreto Sviluppo” recentemente approvato. Uno dei tasselli più rilevanti riguarda le misure di contrasto alla disoccupazione intellettuale, laddove di dispone che: “a tutte le imprese, indipendentemente dalla forma giuridica, dalle dimensioni aziendali, dal settore economico in cui operano, nonché dal regime contabile adottato, è concesso un contributo sotto forma di credito d’imposta del 35%, con un limite massimo pari a 200 mila euro annui ad impresa, del costo aziendale sostenuto per le assunzioni a tempo indeterminato di: a) personale in possesso di un dottorato di ricerca universitario conseguito presso una università italiana o estera se riconosciuta equipollente in base alla legislazione vigente in materia; b) personale in possesso di laurea magistrale in discipline di ambito tecnico o scientifico”.
Questa norma nasce dall’urgenza di provare a porre rimedio al drammatico aumento della disoccupazione giovanile (al 37% su fonte ISTAT), soprattutto riguardante giovani con elevato livello di istruzione. Il Rapporto Almalaurea del 2012 fotografa, a riguardo, uno scenario allarmante. A un anno dal conseguimento della laurea, il reddito medio è di circa 1100 euro al mese (il 13% in meno rispetto a dieci anni fa), e, dopo dieci anni di lavoro post-laurea, si assesta a soli 1600 euro al mese Il tasso di occupazione a un anno dal conseguimento del titolo, fra gli studenti laureati in un corso di laurea triennale nel 2010, è del 68,6%, con una flessione di 9 punti percentuali rispetto a quattro anni fa, ed è di circa il 56% per chi ha conseguito una laurea specialistica. Nell’UE a 27, l’Italia è l’unico Paese nel quale si è ridotta l’incidenza delle professioni più qualificate sul totale degli occupati, facendo registrare – anche su questo aspetto – un rilevante incremento delle divergenze all’interno dell’Eurozona, che Almalaurea data almeno a partire dal 2004, come si evince dalla fig.1.
Si registra anche che una quota significativa di diplomati si iscrive in Università estere (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-continuita-gelmini-monti/).
La norma del Decreto Sviluppo che intende contrastare queste tendenze solleva non poche perplessità, le quali, in larga misura, derivano dal tentativo di coniugare rigore e crescita e da un’impostazione di politica economica interamente declinata dal lato dell’offerta. Ciò per le seguenti ragioni:
a) Le imprese italiane (e ancor più meridionali), salvo rare eccezioni, sono imprese di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate e poco innovative. In tal senso, non esprimono domanda di lavoro qualificato (http://www.roars.it/online/?p=9255). In questo contesto, la disposizione in questione è molto rischiosa: poiché alle nostre imprese non interessa assumere dottori di ricerca (ma certamente interessa ottenere crediti d’imposta), cosa assicura che gli assunti non vengano utilizzati per mansioni inferiori a quelle delle quali dispongono? Ovvero, cosa assicura che questa norma non incentivi la sottoccupazione intellettuale, regalando fondi pubblici alle imprese? In assenza di dispositivi di controllo (che evidentemente avrebbero costi estremamente elevati), ci si può, infatti, ragionevolmente attendere che le imprese assumano personale altamente qualificato, per ottenere sgravi fiscali, per poi destinarlo a svolgere mansioni di qualità inferiore rispetto a quelle per le quali è stato formato, con effetti nulli sul tasso di crescita della produttività.
b) Come più volte ribadito dal Presidente di Confindustria, le imprese italiane hanno bisogno di un ampliamento dei mercati di sbocco interni, oltre che di maggiore facilità di accesso al credito. In altri termini (ed è anche per questo motivo che Giorgio Squinzi ha bocciato la riforma del mercato del lavoro del Ministro Fornero), poiché la normativa sulla flessibilità del lavoro, prodotta nel corso dell’ultimo ventennio, ha assicurato alle imprese una rilevante crescita del potere contrattuale nei confronti dei lavoratori, l’imprenditoria italiana non necessita, nelle condizioni attuali, di disposizioni che le consentano ulteriori riduzioni dei salari (e maggiore ‘flessibilità’), ma semmai di provvedimenti che accrescano la domanda interna, dal momento che la crescita della domanda interna comporta maggiori vendite e maggiori ricavi. Con ogni evidenza, il Decreto Sviluppo soffre di questa contraddizione: da un lato, la crescita economica – anche per le associazioni datoriali – non può essere generata né dalla spending review, né da ulteriori “riforme” del mercato del lavoro e tantomeno da riduzioni dei fondi destinati alla ricerca, dall’altro le politiche di austerità si muovono nella direzione esattamente contraria.
c) Il Decreto Sviluppo pare muoversi anche in direzione opposta rispetto alle politiche formative di questo (e del precedente) Governo, dal momento che, incentivando assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori altamente qualificati, incentiva, per conseguenza, il conseguimento di lauree magistrali e dottorati di ricerca. Come è noto, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha recentemente promosso un questionario sul valore legale del titolo di studio, con l’obiettivo – che è parso subito evidente (http://www.roars.it/online/?p=7567) – di procedere alla sua abolizione. Ci trova, di fatto, di fronte a un curiosum per il quale due Ministri di uno stesso Governo, pressoché contemporaneamente, si adoperino – l’uno – perché siano assunti laureati e – l’altro – perché la laurea non abbia più valore legale.
Vi sono, in sostanza, buone ragioni
per ritenere che le politiche di contrasto alla disoccupazione intellettuale
perseguite con crediti d’imposta siano inefficaci, e che incorrano nel rischio
di disperdere risorse pubbliche senza alcun risultato apprezzabile di crescita
della produttività. E vi sono buone ragioni per ritenere che ciò che, per
contro, andrebbe fatto è semmai cominciare ad avviare politiche industriali che
contrastino il nanismo imprenditoriale e che, anche tramite l’aggregazione di
imprese, incentivino l’innovazione. In tal senso, il problema (correttamente)
individuato nel Decreto Sviluppo – ovvero, la preoccupante crescita della
disoccupazione intellettuale – trova soluzione non nell’incentivo ad assumere
lavoratori qualificati (dal momento che, nelle condizioni date, ciò potrebbe
interessare un numero esiguo di imprese), ma nella riqualificazione della
domanda di lavoro espressa dalle imprese.
Conviene ancora studiare?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 14 ottobre 2012]
Come è stato messo recentemente in evidenza dalla Conferenza dei Rettori (CRUI), all’Università pubblica italiana è stato sottratto, nel corso dell’ultimo biennio, circa il 13% del fondo di funzionamento ordinario e le recenti disposizioni contenute nel decreto sulla spending review prevedono un’ulteriore decurtazione di fondi stimato nell’ordine dei 400 milioni di euro. E’ opportuno sottolineare che non si tratta di questioni di esclusivo interesse di chi lavora nell’accademia: da queste scelte dipende, in modo cruciale, la possibilità di reclutare personale docente (e, dunque, la quantità e la qualità dell’offerta didattica), la quantità e la qualità dei servizi che le Università potranno offrire agli studenti e, non da ultimo, la pressoché inevitabile ricaduta del taglio dei finanziamenti sulle tasse universitarie, già aumentate negli scorsi anni in quasi tutti gli Atenei. Occorre rilevare che questa tendenza riguarda la gran parte dei Paesi industrializzati: nel Rapporto “Panorama 2011”, l’OCSE rileva che solo otto Paesi (Danimarca, Svezia, Finlandia, Irlanda, Islanda, Messico, Norvegia e Repubblica Ceca) hanno mantenuto l’accesso gratuito agli studi pubblici.
Come messo in evidenza da alcuni commentatori, nel caso italiano la “cura dimagrante” imposta all’Università pubblica trova la sua principale motivazione nel fatto che la nostra struttura produttiva è fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, che non esprimono, nella gran parte dei casi, domanda di lavoro altamente qualificato. Non a caso, la nostra bilancia tecnologica è strutturalmente in perdita, ovvero importiamo innovazioni più di quante ne esportiamo. Visto in questa prospettiva, il problema italiano attiene a un eccesso di scolarizzazione che, in assenza di politiche industriali che ri-orientino la domanda di lavoro, viene sic et sempliciter risolto disincentivando le immatricolazioni. Ma vi è di più. La ratio che, anche all’estero, ispira provvedimenti di riduzione dei finanziamenti per l’istruzione risiede nella convinzione stando alla quale l’aumento delle tasse universitarie renderebbe gli studenti più responsabili in ordine alla scelta se iscriversi o meno a un corso di studi. Nel caso opposto – ovvero nel caso di bassa tassazione – si incentiverebbero, per contro, le immatricolazioni di studenti che nell’Università vedono solo un “parcheggio”, con il conseguente aumento – soprattutto nel caso italiano – degli studenti fuori corso.
Anche accettando questa impostazione, che riduce il problema della scelta se studiare o meno a un’analisi individuale costi-benefici e agli incentivi/disincentivi posti dall’assetto istituzionale esistente, si possono rilevare almeno due criticità che da essa derivano.
1) Per quanto ciò possa apparire paradossale in prima approssimazione, le politiche formative messe in atto negli ultimi anni hanno generato una condizione per la quale studiare non conviene. Con una specificazione rilevante, per quanto ovvia. Un elevato titolo di studio costituisce un pre-requisito per carriere rapide e appetibili, ma solo per giovani che provengono da famiglie che, per status e reddito, possono garantire ai propri figli un adeguato posizionamento nel mercato del lavoro. Va rilevato, a riguardo, che coloro che magnificano il sistema formativo statunitense (modello ispiratore della ‘riforma’) non tengono conto non solo del fatto che, nel complesso, la produttività media dei ricercatori americani non è molto maggiore di quella degli italiani, ma soprattutto che il sistema formativo statunitense non favorisce (semmai blocca) la mobilità sociale. Su questo aspetto, Italia e USA hanno caratteristiche comuni, essendo il grado di immobilità sociale sostanzialmente identico nei due Paesi, come certificato dall’OCSE, e il più alto fra i principali Paesi industrializzati. A ciò si aggiunge il fatto che le politiche di austerità realizzate nel corso dell’ultimo triennio, riducendo i redditi disponibili soprattutto delle famiglie più povere, soprattutto nelle aree periferiche, hanno reso sempre più difficile sostenere il costo degli studi, così che studiare è sempre più oneroso. E infatti, l’evidenza disponibile mostra un significativo calo delle immatricolazioni, quantomeno a partire dall’ultimo biennio. Occorre, dunque, chiedersi se coloro che non si sono iscritti all’Università lo hanno fatto perché poco motivati o perché non in grado di pagare tasse elevate e in aumento: domanda che non ammette risposta e che, dunque, non accredita (o, al più, smentisce) la tesi dominante. Né si può ragionevolmente obiettare che un adeguato sistema di borse di studio che premi i ‘meritevoli’ risolva o attenui il problema: nei Paesi nei quali sono state introdotte (Stati Uniti in primis), e nei quali (come si vorrebbe fare in Italia) la formazione è gestita secondo pure logiche di mercato, si è determinata una rilevante crescita dell’indebitamento delle famiglie per consentire ai loro figli di studiare, generando in molti casi l’impossibilità di restituire il debito.
2) Il reclutamento di un docente universitario si giustifica, di norma, in considerazione del fatto che esiste una platea di studenti sufficientemente ampia ai quali impartire lezioni, così che le scelte di assunzione e di avanzamento di carriera dipendono in larghissima misura da considerazioni che attengono alla didattica. Da ciò segue che il combinato del calo delle immatricolazioni e della decurtazione dei finanziamenti fa sì che, già nel breve periodo, il numero di nuovi docenti assunti sarà verosimilmente molto esiguo, a fronte dell’elevatissimo numero di pensionamenti, già in atto, con un picco previsto nel prossimo biennio. Anche questo non è un problema che riguarda esclusivamente il mondo accademico, avendo rilevanti ricadute economiche e sociali sotto almeno due aspetti. In primo luogo, l’offerta formativa a beneficio degli studenti dovrà essere ulteriormente ridotta, con l’inevitabile conseguenza che le famiglie si troveranno (come, peraltro, già sta accadendo) a pagare più tasse avendo minori possibilità di scelta in ordine alle sedi e ai corsi di studio ai quali far riferimento per l’istruzione superiore dei loro figli. In secondo luogo, la riduzione del numero di ricercatori e professori (che, oltre alla didattica, svolgono attività di ricerca) ha, come ulteriore effetto perverso, un minor avanzamento delle conoscenze, che, a sua volta, si traduce in minori possibilità – da parte delle imprese italiane – di generare crescita mediante l’introduzione di innovazioni derivanti da invenzioni che le strutture di ricerca italiane potranno produrre.
Si badi che, oltre a essere una politica miope che trascura i rilevanti effetti della scolarizzazione diffusa e della ricerca sulla crescita economica, è anche un politica che non ha motivazioni economiche né ragionevoli, né, a maggior ragione, razionali. In una condizione di emergenza – politicamente indotta – tutto ciò che si riesce a fare è risparmiare laddove è possibile, ovvero laddove si incontrano le minori resistenze sociali e politiche: che si tratti di Università o di ospedali, in questa logica, poco importa.
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Sanità, scuola e la retorica della “razionalizzazione”
[in “MicroMega” online, 18 dicembre 2012]
Per “razionalizzazione” si intende un’operazione di politica economica finalizzata a rendere più efficiente il funzionamento di un sistema economico, attraverso il contenimento (o l’azzeramento) degli sprechi. Il termine è talmente abusato nel dibattito italiano da renderlo sostanzialmente vuoto e, al tempo stesso, da renderlo socialmente accettato, dal momento che è difficile immaginare che un cittadino dotato di buon senso possa invocare politiche che incentivino prassi inefficienti. Va però rilevato – cosa ben nota agli addetti ai lavori – che, in Italia, con la massima intensità negli ultimi anni, per razionalizzazione si intende, di fatto, un’azione unicamente finalizzata a ridurre la spesa pubblica, che prescinde del tutto da considerazioni relative all’efficienza ed è unicamente motivata con l’obiettivo di accumulare avanzi primari.
Si considerino, a riguardo, e a puro titolo esemplificativo, due provvedimenti in discussione ai fini dell’approvazione della Legge di Stabilità: la decurtazione di fondi pubblici per l’acquisto di beni, servizi e dispositivi medici, e l’aumento dell’orario di lavoro – a parità di stipendio – per i docenti delle scuole medie e superiori. Si tratta, come si vuol far intendere, di operazioni di razionalizzazione? Per rispondere a questa domanda, occorre chiarire che – come attestato da un’ampia evidenza teorica ed empirica – l’investimento pubblico in sanità e istruzione è, anche dal punto di vista liberista, un investimento di massima rilevanza per la crescita economica, per ragioni facilmente comprensibili, dal momento che è ovvio che un’economia composta da individui istruiti e in buone condizioni di salute è potenzialmente più produttiva di un’economia popolata da individui poco secolarizzati e in peggiori condizioni di salute (http://www.economiaepolitica.it/index.php/tag/fontana/). E occorre sgombrare il campo da una ipotesi falsa o comunque tutta da dimostrare; secondo la quale è solo rendendo scarse le risorse di cui un individuo (o una collettività) dispone, che si incentiva a farne un uso efficiente.
Nel primo dei casi qui evidenziati, potrebbe trattarsi di un ulteriore passo verso la privatizzazione del sistema sanitario nazionale ma, a ben vedere, l’importo è eccessivamente modesto per produrre questo esito, almeno nel breve periodo. Peraltro, come è stato dimostrato (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sanita-e-linteresse-generale/), nonostante le dichiarazioni del prof. Monti, il sistema sanitario pubblico non è a rischio: può ovviamente diventarlo se lo stesso prof. Monti, in qualità di Presidente del Consiglio, si adopera per metterlo a rischio. Ma, a fronte di questo, non si capisce per quale ragione la decurtazione di fondi alla sanità possa costituire un’operazione di “razionalizzazione”, ovvero non si capisce per quale ragione ridurre il finanziamento per l’acquisto di macchinari possa rendere il sistema sanitario più efficiente.
Il documento tecnico di accompagnamento alla Legge di Stabilità 2013 stima che l’aumento dell’orario di lavoro dei docenti di scuola comporterà risparmi per circa 700 milioni di euro, derivanti dalla totale cancellazione delle supplenze. Si tratta di far guadagnare al sistema scolastico maggiore efficienza? Con ogni evidenza, no. Il solo effetto che questa norma può produrre è accrescere la disoccupazione nel settore. In un’economia che sperimenta un significativo calo demografico e un tasso di crescita – su fonte ISTAT – nell’ordine del –2.4%, è arduo immaginare che gli attuali supplenti troveranno impiego in altri settori o che diventeranno docenti di ruolo. Ancor più se si considera l’imminente concorrenza che eserciteranno i vincitori del mega-concorso voluto dal Ministro Profumo. Per il sistema scolastico, si tratta di un’operazione che riesce nel non facile intento di scontentare tutti, salvo probabilmente alcuni Dirigenti scolastici ai quali il c.d. DDL Aprea – cardine dell’ennesima “riforma” del sistema formativo – attribuisce maggiori poteri. Ma, al tempo stesso, istituendo la possibilità di finanziamenti privati alle scuole, il DDL Aprea, di fatto, sottrae loro poteri sostanziali, dal momento che, laddove questo dovesse avvenire, il potere effettivo sarebbe ovviamente nelle mani del finanziatore. In più, l’ingresso dei privati nella scuola (non riuscito neppure nelle Università) è da considerarsi un’ipotesi del tutto remota per due ragioni. In primo luogo, e in una prospettiva di breve periodo, la riduzione dei profitti – soprattutto per le imprese collocate nelle aree periferiche (Mezzogiorno, innanzitutto) – non lo consente. In secondo luogo, e soprattutto, l’istruzione è tecnicamente un bene pubblico. L’istruzione di base fornisce capitale umano ‘generico’, facilmente trasferibile da un’impresa a un’altra, così che la spesa effettuata dalla singola impresa può generare “esternalità positive” a vantaggio delle sue concorrenti: in tal senso, l’investimento privato per la formazione di capitale umano generico è, di norma, non conveniente. Anche in questo caso, la norma introdotta serve unicamente a “far cassa”, o quantomeno a provarci, spostando l’onere del finanziamento dell’istruzione dal pubblico al privato.
L’irrazionalità di queste misure si rende palese alla luce di due considerazioni.
1) Poiché l’investimento in sanità e scuola è essenziale per la crescita economica, il disinvestimento, per conseguenza, non può che produrre un ulteriore calo del tasso di crescita. E’ una strategia controproducente anche per l’obiettivo governativo di “far quadrare i conti”, essendo ormai chiaro che quanto meno lo Stato spende (in particolare in questi settori), tanto minore risulta il tasso di crescita, tanto più aumenta l’indebitamento pubblico. A quanto pare, su questo fronte, l’ideologia acceca. Proprio a seguito della reiterazione di politiche di riduzione della spesa (e di aumento dell’imposizione fiscale), accentuate in particolare nell’ultimo anno, il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato.
2) Rendere sempre più scarse le risorse aumenta semmai i livelli di conflittualità, non l’efficienza del sistema. Si calcola, a riguardo, che, nel corso dell’ultimo biennio, si è assistito a una crescita estremamente rilevante del numero di scioperi (http://www.commissionegaranziasciopero.it/scioperoList): dunque, ore lavoro perse e aumento dei costi di repressione e sorveglianza, ovvero meno produzione e più spesa.
Le operazioni di “razionalizzazione” hanno una loro tecnica consolidata, che si attua in quattro mosse. Si individuano i settori più vulnerabili, perché non adeguatamente difesi sul piano politico e, dunque, dotati di scarso potere contrattuale, e/o i settori non ancora sufficientemente colpiti. Si argomenta che tutti devono contribuire a “fare sacrifici”. Si amplificano, sul piano mediatico, i più eclatanti casi di spreco e, se questi non sono eclatanti (o proprio non esistono), li si fa passare come tali. Si legittimano, conseguentemente, i tagli.