Nella crisi abbiamo dato risposte da italiani. Le autorità per un verso hanno sdrammatizzato e rassicurato, invitando i cittadini a vivere nella normalità, per un altro hanno messo in essere tante di quelle misure precauzionali da pensare ad esiti terribili del virus.
Le autorità politico-amministrative hanno litigato. Il Presidente della Regione Lombardia ha polemizzato col Presidente del Consiglio. Il Presidente della Regione Veneto ha usato parole offensive nei confronti della Cina affermando: “abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi vivi”, per poi scusarsi formalmente.
Gli operatori del mondo del calcio si sono messi a litigare come ai tempi di calciopoli con accuse di falsare il campionato, avvantaggiare alcune squadre e penalizzarne altre. Che poi, sono le solite, sia le une che le altre.
E i cittadini? Sono passati dallo scansare persone e luoghi “cinesi” allo scansare persone e luoghi “italiani”. Hanno fatto incetta in pochissimi giorni di tutto ciò che i massmedia dicevano e mostravano essere utile nell’emergenza: mascherine e disinfettanti su tutto. In pochissimi giorni i supermercati sono stati presi d’assalto per accumulare quanto più era possibile in “vista” di una probabile inagibilità urbana. Sono state chiuse le chiese, le scuole, i musei, gli stadi, i cinema, i teatri, i ristoranti. Si è consigliato di non frequentare luoghi affollati e assembramenti, di stare a due metri di distanza l’uno dall’altro, di starnutire nell’incavo del braccio. Si è creato un clima di sospetto diffuso. Meridionali, che sono scappati nottetempo dal Nord, nonostante il divieto di lasciare il comune di contagio, per rifugiarsi nei propri paesi di provenienza. Genitori, che si son partiti dal Sud in macchina per andare a prendersi i figli studenti nelle università del Nord. Altri che assai più saggiamente hanno suggerito ai propri figli di non muoversi da dove stavano per non aumentare i rischi di contagio per sé e per gli altri. Ognuno ha risposto come ha pensato bene di fare, non ancora in preda al panico ma assai vicini a ciò che lo precede.
Chi ha svolto un compito importante è stata l’informazione, soprattutto quella asettica, di dati e di analisi di esperti, anche se pure in questo campo sono venute fuori le solite presunzioni di titolarità del vero. Abbiamo visto virologi litigare e ostentare a chi la sa meglio e tutta.
Ad un lettore che chiedeva al “Corriere della Sera” di non parlare per qualche giorno in prima pagina del virus, per evitare ulteriori danni all’economia, giustamente il direttore Luciano Fontana ha risposto rivendicando non solo il diritto-dovere di informare, ma anche l’utilità di farlo. “Stiamo attraversando un’emergenza che non ha paragoni – ha detto – non solo in Italia ma a livello globale. Conoscere cosa ci sta accadendo, sapere che ci sono misure che dobbiamo mettere in atto per noi, per le nostre famiglie, per i nostri amici o per i colleghi di lavoro è indispensabile…Informare è necessario, altrettanto necessario è farlo con oggettività, serietà e senza provocare allarmi che vadano oltre la realtà”.
Si consideri che un secolo fa, nel 1918-19, quando si diffuse nel mondo la febbre influenzale, detta “spagnola”, in Italia per mesi e mesi fu proibito ai giornali di darne notizia per non compromettere l’esito della guerra; e la gente moriva a centinaia e migliaia al giorno a seconda dei paesi e delle città. Solo quando si giunse al picco, su insistenze degli operatori dell’informazione, il governo autorizzò a fornire giorno per giorno in ogni città il numero dei contagiati e dei morti.
Spero che quando uscirà questo numero di “Presenza” molte paure e preoccupazioni stiano già alle nostre spalle; ma se ciò non dovesse verificarsi, l’invito è di non abbandonarsi né al panico né alla buona stella, ma di continuare a comportarsi come i suggerimenti che ci sono stati dati finora da medici e scienziati.
[“Presenza taurisanese” anno XXXVIII n. 3-4 / marzo-aprile 2020, pp. 1 e 16]