Una lettura incrociata di questi tre testi rivela, per dirla con Canfora, quanto sia “banale, unilaterale e semplificatoria” l’immagine dominante del liberalismo e quanto multiforme e ricca sia stata, invece, la sua parabola, che ha contrassegnato la storia della modernità europea e americana. La tesi centrale del lavoro di Rosenblatt è che la complessità di questa storia è stata condannata all’oblio dal fatto che dopo il 1945, con l’avvio della Guerra Fredda, è divenuta egemone una vulgata del liberalismo che nell’immaginario collettivo e nel dibattito pubblico lo ha identificato con la versione americana nella sua contrapposizione al totalitarismo sovietico. Questa concezione del liberalismo, coincidente con la difesa dei diritti e degli interessi individuali in antitesi al collettivismo dell’URSSS e dei paesi satelliti, è stato un prodotto ideologico tipicamente americano, appartenente ad una fase storica ben determinata, rispetto a cui si tratta oggi di recuperare la pluralità delle sue tradizioni nazionali e l’originalità delle sue voci intellettuali. Rosenblatt mostra che il luogo di nascita del liberalismo è l’Europa, la Francia della Rivoluzione del 1789, e che, dovunque esso ha preso piede, ha mantenuto rapporti molto stretti con gli sviluppi post-rivoluzionari della politica francese. Prima di allora, liberale era un termine che indicava le virtù del cittadino romano, descritte ad esempio da Cicerone, come l’amore della libertà, il senso civico o, potremmo aggiungere, da Seneca, come sinonimo di generosità: una tradizione che si mantiene viva fino al XVIII secolo nella formazione intellettuale delle élites al potere e che ha influito anche sui padri fondatori della Costituzione americana. Il lavoro della Rosenblatt è davvero straordinario, perché ricostruisce in una narrazione avvincente le numerose versioni del liberalismo, a cominciare da quando lo stesso termine venne coniato intorno al 1811 e gli stessi princìpi liberali furono gradualmente elaborati grazie a uomini e donne come Benjamin Constant (1767-1830) e Madame de Staël (1766-1817). La scoperta di quelli che definiamo princìpi liberali precede, dunque, l’uso del termine liberalismo e in questi due protagonisti della cultura letteraria e filosofica europea la principale preoccupazione è di tutelare le conquiste della Rivoluzione nei confronti sia della controrivoluzione (si pensi ai reazionari cattolici J. de Maistre e L. de Bonald), sia del Terrore giacobino. Nel 1795 professare i princìpi liberali significava per entrambi difendere il governo repubblicano in carica, cioè alcuni diritti fondamentali come un governo costituzionale e rappresentativo, la libertà di stampa e la libertà di religione. Liberale non andava confuso con democratico e l’espressione “democrazia liberale” è ancora di là da venire. Il diritto di voto era ancora limitato in senso patrimoniale e la paura delle moltitudini irrazionali e inclini alla violenza (un argomento topico che risale al mondo greco-romano) portava a giustificare l’esclusione dei nullatenenti e dei poveri (oltre che delle donne) dall’accesso al voto e alle cariche pubbliche come un modo per favorire il “governo dei migliori”. Il regime di Napoleone I aveva mostrato come la sovranità popolare potesse allearsi con la dittatura, con un potere privo di limiti. Monarchie e repubbliche possono essere altrettanto oppressive se l’autorità di governo è concentrata non solo nelle mani di uno solo, ma anche di pochi o di molti. D’altronde, il consenso plebiscitario a Luigi Napoleone, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848, confermerà questi timori secondo cui la sovranità popolare, senza contrappesi costituzionali, può alimentare forme di cesarismo e di bonapartismo. Se c’è un limite nel lavoro di Rosenblatt, esso risiede nel poco spazio dato all’intreccio tra liberalismo e colonialismo (e, quindi, tra liberalismo e imperialismo), un intreccio che rivela come il cono d’ombra del liberalismo sia stato, per lungo tempo, quella che chiamerei una vera e propria clausola sacrificale, cioè la credenza che per la felicità del maggior numero ci siano categorie di persone sacrificabili o perché ritenute per una qualche ragione (per razza, religione, sesso, status sociale, ecc.) non completamente umane o perché reputate inferiori. Canfora nella sua prefazione ricorda che è stato Domenico Losurdo nella sua Controstoria del liberalismo (Laterza 2005) a evidenziare questa deformazione congenita che il liberalismo si è portato dietro per lungo tempo. Da parte mia, aggiungerei che il liberalismo si è liberato della clausola sacrificale a mano a mano che ha scoperto la questione sociale e, soprattutto con l’estendersi della rivoluzione industriale, il movimento operaio organizzato poneva domande di riconoscimento etico-politico e di redistribuzione della ricchezza. È con l’apertura di questa nuova fase che il liberalismo intraprende un dialogo, conflittuale e ininterrotto, con le varie declinazioni del socialismo negli Stati nazionali europei. Ne nasceranno correnti di pensiero che cercheranno di combinare insieme elementi di liberalismo (come la divisione dei poteri, il concetto di Stato di diritto, la questione della libertà in chiave di diritti individuali, ecc.) ed elementi di socialismo (istanze di giustizia sociale, di Stato previdenziale, di partecipazione al processo produttivo, ecc.). Sotto questo profilo, una vera novità del libro di Rosenblatt è l’attenzione dedicata alla Germania, dove Bismarck costruisce un welfare State autoritario, che, vorrei ricordare, il giovane Lenin chiamerà la “via prussiana al capitalismo”, ma dove il liberalismo conosce un’elaborazione innovativa sul piano dell’economia politica e dell’etica pubblica grazie ad autori che criticano il liberismo del laissez-faire e sostengono la necessità di ripensare il ruolo dello Stato (W. Roscher, K. Knies, i socialisti della cattedra, ecc.). Al punto che il liberalismo tedesco sarà a lungo un modello teorico di riferimento per gli altri paesi europei e per gli stessi Stati Uniti. Una mappa ragionata e pressoché completa della vicenda politica e intellettuale dei rapporti tra liberalismo e socialismo, che ha riguardato in particolare la prima metà del Novecento, la troviamo nel libro di Audier: a cominciare dal liberalismo sociale di John Stuart Mill al “nuovo liberalismo” di Leonard Trelawny Hobhouse in Inghilterra, ma anche, aggiungerei, alla democrazia industriale dei coniugi Beatrice e Sidney Webb, fino alla “rivoluzione liberale” di Piero Gobetti, al “socialismo liberale” di Carlo Rosselli fino al liberalsocialismo di Guido Calogero (1904-1986), Aldo Capitini (1899-1968) e Tommaso Fiore (1884-1973) in Italia. In Italia di liberalismo sociale parlerà il filosofo Guido De Ruggiero, allievo di Gentile, che nel 1925 aveva scritto per i tipi di Laterza una documentata Storia del liberalismo. Audier pone bene in risalto le differenze tra il liberalsocialismo di questi autori, peraltro tra loro abbastanza diversi per formazione intellettuale e il il socialismo liberale di Rosselli, anche se esso non sarebbe stato concepibile senza quest’ultimo. Più attenzione forse avrebbe meritato il gruppo liberalsocialista barese, di cui faceva parte Tommaso Fiore, autore del “Catechismo liberalsocialista” (1944), e da cui nacque l’esperienza della rivista “Il Nuovo Risorgimento” (1944-1946), diretto da Vittore Fiore (1920-1999). In questo contesto, sarebbe apparsa più nitidamente la riforma del liberalismo propugnata da questi autori, che, polemizzando con Croce, si inserivano nell’area filosofica e politica del nuovo liberalismo europeo ricostruito dalla Rosenblatt: una ricostruzione a cui mancano, però, alcuni tasselli strategici come O. Neurath, J. M. Keynes, K. Mannheim, K. Polanyi e, salvo brevi cenni, J. Dewey, tanto per citare alcuni nomi. Infatti, la linea di demarcazione tra il vecchio liberalismo, legato ai dogmi del “laissez-faire” e dello Stato minimo (ridotto, cioè, alle funzioni del conio della moneta, dell’ordine pubblico e della politica estera), e le nuove forme interventiste di Stato, incaricato di garantire le condizioni di sviluppo della libertà individuale attraversa l’intera storia del liberalismo, specie nel XX secolo.
La crisi del 1929 costituisce senza dubbio uno spartiacque, perché la politica del New Deal di F. Delano Roosevelt segna, a mio avviso, il punto più alto del nuovo liberalismo, dell’intervento dello Stato nell’economia, che prefigura il welfare State del secondo dopoguerra. Celebre il suo discorso del 1941 sulle quattro libertà: libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. Liberalismo e azione sociale di Dewey nel 1935 difende la pianificazione democratica sottolineando che essa, lungi dall’essere la “via della schiavitù” – come si intitolerà un celebre testo di F. von Hayek del 1944 -, è, invece, la strada obbligata per rimettere l’economia al servizio della libertà e dell’eguaglianza degli individui e per rivitalizzare l’ideale democratico attraverso la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. Per tornare, infine, al prezioso testo della Rosenblatt, bisogna segnalare l’ultimo capitolo, in cui viene descritto il processo storico in cui, a partire dalla Prima guerra mondiale, da un lato si rafforza l’alleanza angloamericana, e dall’altro diventa egemone l’equazione tra liberalismo e Stati Uniti. Ciò comporterà la rimozione dal dibattito pubblico delle versioni europee del liberalismo: tedesca, francese, italiana, compresa quella inglese. E’appena il caso di aggiungere che, con la fine della Guerra Fredda e il fallimento dei regimi del “socialismo reale”, era inevitabile che il liberismo del laissez faire diventasse l’ideologia dominante attraverso le dottrine di von Hayek e di Milton Friedman.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 30 marzo 2020]