di Francesco Fistetti
Di fronte alla crisi delle istituzioni politiche occidentali sempre più svuotate della loro sostanza democratica, viene alla mente una delle tesi sul concetto di storia scritte da Walter Benjamin nel 1940, secondo cui ad ogni nuova epoca conviene strappare la tradizione al “conformismo” che si è impadronito di essa. Questa esigenza di chiarezza sorge soprattutto per quei concetti che nel linguaggio quotidiano e nella comunicazione dei media vengono utilizzati come nozioni, per così dire, pigliatutto, il cui uso convenzionale ne ha oscurato, e a volte cancellato, l’origine storica e la molteplicità dei significati. Con questi concetti, avrebbe detto Aristotele, siamo soliti argomentare nei nostri discorsi, ma raramente li rendiamo oggetto di argomentazione per scoprire i loro rapporti con la tradizione e con la cultura di provenienza. Uno di essi è senza dubbio quello di liberalismo e, ancora più, quello di (neo)liberismo, che per come vengono adoperati nella pubblicistica corrente sono scaduti a nozioni prive di precisi referenti storici e concettuali, funzionali per lo più alla polemica politica del momento. Due libri recentemente tradotti, e un terzo il cui autore è un classico riedito venti anni fa e che oggi sarebbe utile ripubblicare, possono aiutarci a conoscere meglio il liberalismo come concezione filosofica e politica e a ricostruire le tappe fondamentali della sua evoluzione storica e le trasformazioni semantiche che ne sono seguite. Il primo è il libro di una storica statunitense, Helena Rosenblatt, Liberalismo ritrovato. Dall’antica Roma al XXI secolo, prefazione di Luciano Canfora (Dedalo, Bari 2019); il secondo è il volume dello studioso francese Serge Audier, Il socialismo liberale (Mimesis, Milano 2017) e il terzo è il celebre, ma poco conosciuto, saggio del filosofo pragmatista americano John Dewey, Liberalismo e azione sociale (Ediesse, Roma 1997), uscito nel 1935.