Con la massima schematizzazione, i risultati ai quali gli autori pervengono sono questi: 1) Lecce è una città di servizi e ciò si riversa nel linguaggio e nei comportamenti dei suoi abitanti, orientati a una visione “burocratica” dei rapporti sociali; 2) Lecce è una città nella quale è scarsa la densità di relazioni sociali “proattive” e nella quale il conflitto è occultato e tende a essere risolto per via giudiziaria; 3) Lecce, infine, è una città nella quale l’orientamento politico degli abitanti è costante nel tempo, e tendenzialmente orientato verso valori (e partiti politici) tipici della Destra. Quest’ultimo dato porta gli autori a mettere in evidenza il ruolo rilevante giocato dalla tradizione come base valoriale che orienta i comportamenti dei leccesi e, sul piano socio-economico, a porre in risalto il fatto che il potere, in città, è strettamente connesso al possesso di grandi patrimoni. I rentier, dunque, dominano la scena, in un contesto nel quale non si è mai generato un processo di industrializzazione e conseguentemente non è mai esistita una classe operaia, orientando gli abiti mentali verso l’ostentazione e l’emulazione. Lo spirito emulativo si diffonde dalle classi agiate ai ceti popolari, che – anche se con bassi redditi – tendono, nei limiti delle loro possibilità, a destinare risorse per consumi “di lusso” e, contestualmente, a dipendere dai rentier per la propria sussistenza e, soprattutto, per la ricerca del lavoro. Gli autori rilevano, a riguardo, che il mercato del lavoro cittadino è essenzialmente basato su “reti relazionali”, in un assetto istituzionale nel quale, anche in condizioni di basse retribuzioni, elevata disoccupazione, disagio diffuso e malcontento diffuso, il conflitto risulta sostanzialmente inesistente. I fermenti creativi che la città fa registrare – rilevano gli autori – sono in larga misura riconducibili a esperienze che provengono dalla provincia, e dunque da un contesto rurale che ha recepito le logiche della globalizzazione attraverso la chiave d’accesso del turismo e della cultura.
Le analisi contenute in questo volume sono estremamente preziose anche per orientare l’azione politica, soprattutto in una fase nella quale la recessione fa sentire i suoi effetti maggiormente nelle regioni meridionali e, stando all’ultimo Rapporto Svimez, soprattutto, fra queste, in Puglia. Occorre chiedersi, in particolare, se l’attuale modello di sviluppo del Salento sia sostenibile in un contesto di crescente competizione internazionale e nel quadro della crisi economica mondiale. Occorre, cioè, interrogarsi se la convinzione dominante – basata sull’idea che sia sufficiente assecondare le vocazioni naturali del territorio (turismo e agricoltura, in primis)per generare sviluppo – sia oggi accettabile, e se, per contro, non si renda oggi necessario e urgente rendere competitive le nostre imprese favorendone la crescita dimensionale e incentivarle all’adozione di innovazioni. Dopo tutto, questa strategia si renderebbe agevolmente percorribile in considerazione della presenza in loco di una sede universitaria, che, per qualità della ricerca, è ben posizionata nel panorama internazionale, e nella quale si produce ricerca di base e applicata che spesso (e paradossalmente) viene valorizzata altrove.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 14 novembre 2014]