di Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso apre una delle più memorabili quartine di Montale, incastonata in mezzo alle splendide poesie di Ossi di seppia:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Nel cuore del primo verso, il male di vivere: una definizione dell’esistenza individuale e universale che viene da lontano. Lo sguardo dei primi poeti e tragici greci – da Mimnermo a Sofocle – sulla vita come male, le concezioni della gnosi – nelle varianti neoplatoniche e cristiane – intorno al dispiegarsi del mondo come lontananza dalla luce e dal principio, le tante modulazioni della poesia romantica europea, che declinano il male sia nell’orizzonte metafisico sia in quello dell’esistenza del singolo. Una storia ricchissima, sul cui fondo il poeta deve muovere le tessere del suo mosaico, che dovrà diventare singolare e irripetibile, come solo la vera poesia sa fare.