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Casualità. Senza la ferrovia non sarei qui. Leggo il libro di Giuseppe Orlando D’Urso, Corigliano d’Otranto dal 1799 all’Unità d’Italia, Edizione Grifo, Lecce 2011, e mi imbatto a p. 233, in una curiosità che mi riguarda: “A dirigere i lavori [di costruzione della ferrovia salentina] era l’ingegnere ferroviario Giustino Bari, proveniente da Recanati. Dalla moglie Vincenza Berrino ebbe diversi figli ai quali fu curiosamente e simbolicamente imposto, tra altri nomi, quello del paese in cui in quel momento si effettuavano i lavori per la costruzione della linea ferroviaria. Così a una figlia fu imposto il nome di Sternatia Dorotea Maria Consiglia…”. Siamo intorno al 1870: questa bambina da grande sarebbe stata la madre della mia nonna materna, Vincenza Costantini (Vincenza, lo stesso nome di sua nonna, Vincenza Berrito), nata nel 1904. Così ho scoperto di avere nelle vene un po’ di sangue recanatese (Giustino Bari) e di dovere la mia esistenza in parte anche alla ferrovia salentina. Quando si dice i casi della vita…
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Conversazione con un ottuagenario. Il discorso scivola sui servizi igienici della casa contadina prima della guerra, dunque fino ai primi anni quaranta del Novecento. La casa non aveva mai un vano destinato a stanza da bagno, e allora si collocava un cantaro di terracotta nel sottoscala o in altro luogo angusto inutilizzato. Il cantaro veniva svuotato una volta al giorno e il suo contenuto serviva sempre per la concimazione dei campi. Nei pressi del cantaro, attaccato ad un gancio, si appendeva “la pezza”, ovvero un pezzo di stoffa di risulta, proveniente dal taglio di qualche indumento dismesso dopo moltissimi anni. La “pezza” aveva la funzione specifica di detergere da eventuali frammenti merdosi il posteriore di coloro che utilizzavano il cantaro; insomma, era l’antenata della moderna carta igienica. Il bidet era solo un attrezzo di cui si aveva nozione vaga e peccaminosa, avente a che fare con le case di tolleranza francesizzanti. Bisognò attendere i tardi anni cinquanta perché si cominciasse a utilizzare la carta igienica, sempre con molta parsimonia. Che la carta igienica sia il frutto della modernità si comprende bene dal fatto che essa viene buttata via dopo l’uso, mentre la pezza era utilizzata da un numero imprecisato di persone, sempre numerose in una famiglia contadina; e dunque, fino a quando, dice l’amico ottuagenario, neppure un angolo di stoffa rimaneva pulito; solo allora una donna di casa provvedeva a lavare “la pezza” e a sostituirla con un’altra.
Quanto sopra è detto per erudizione dei più giovani.
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Mondi paralleli. Diseguaglianza della mobilità mondiale. Scrive Edoardo Greblo, Umanità di confine, in “Aut Aut” a. 2018, n. 378, p. 81: “Mentre per chi può praticare forme di mobilità regolare i confini tendono a perdere significato e a diventare realmente evanescenti, per chi è costretto a percorrere rotte migratorie alternative a quelle precostituite il confine smentisce quotidianamente il sogno di un mondo di illimitata mobilità.
È come se i viaggiatori regolari e i migranti “irregolari” occupassero universi diversi della mobilità, vivendo in mondi paralleli in cui le esperienze delle rispettive mobilità fossero sostanzialmente incommensurabili.”
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Libri involontari. Ne parla Raffaele Manica, Il dettaglio avvia l’indagine, in “Il Manifesto – Alias” di domenica 29 luglio 2018, p. 5: “Libri che erano, come nella migliore tradizione critica, raccolte di articoli e saggi e, come Garboli avrebbe detto, “libri involontari” (tali vanno considerati anche il Molière e il Pascoli).” Questa dei “libri involontari” mi sembra una gran bella cosa: mi certifica la loro sostanziale autenticità e bontà.
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Curiosità. Nel film di Charlie Chaplin, La febbre dell’ora (1925), l’omino e Giacomone affamati mangiano uno scarpone bollito. Nel racconto Un’odissea del Nord (1900), Jack London (in I racconti del Grande Nord e della corsa all’oro, Newton Compton, Roma 1992, p. 116, descrive una situazione simile: “Lui disse: “Riposeremo accanto al fuoco fino a domattina, e riprenderemo forza mangiando i mocassini”. Così tagliammo a strisce la tomaia dei mocassini, e la facemmo bollire per quasi tutta la notte in modo da poterle masticare e inghiottire.”
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La macchina. Ieri, in un ufficio, ho osservato una ragazza al computer intenta ad inserire dei dati in una piattaforma. Ho avuto l’impressione che stesse dialogando con una macchina, botta e risposta, precisa l’una e precisa l’altra; senza parlare, muovendo solo le dita della tastiera – quante cose sono in grado di fare le mani! – e gli occhi sul monitor, constatando la risposta della macchina e spostando e cliccando di volta in volta il mouse. Alla fine dell’inserimento dei dati, le ho fatto i miei complimenti per la rapidità ed efficienza dell’esecuzione, e solo allora la ragazza ha sorriso, dimostrando di non essere una macchina. Eppure io le avevo fatto i complimenti proprio perché fin lì si era mossa proprio come una macchina!
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La vita. “La vita è molto strana. Ci ho pensato molto, cercando di sviscerare la questione, e tuttavia ogni giorno la stranezza, invece di ridursi, aumentava. Perché questo desiderio di vivere? Nessuno può vincere questa partita. Vivere significa lavorare duro e soffrire, finché la vecchiaia scivola pesantemente su di noi e lasciamo cadere le mani fredde sulla cenere di fuochi ormai spenti. Con il suo primo respiro il bambino succhia il dolore, e con il dolore il vecchio emette l’ultimo, e tutti i suoi giorni sono pieni di guai e di sofferenze; eppure si avvia verso le braccia spalancate della Morte, inciampando, cadendo, con la testa volta indietro, lottando sino alla fine. Ma la Morte è dolce. Sono solo la Vita e le cose della Vita che ci fanno male. Eppure amiamo la Vita e odiamo la Morte. E’ molto strano.”
Lo afferma Sitka Charley, il narratore del racconto di Jack London, Il coraggio delle donne, ne I racconti del Grande Nord e della corsa all’oro, Newton Compton, Roma 1992, pp. 179-180.
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Zibaldoni. A proposito di questo Zibaldone galatinese, qualche tempo fa un mio amico, incontrandomi per strada, mi ha detto: “Lo leggo sempre con molto interesse, ma non ho ancora capito dove vuoi andare a parare”. “Tu continua a leggere”, gli ho risposto, “poi si vedrà!”.
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Turisti e abitanti. Tenere conto dell’ottima osservazione di Richard Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018, p. 67: “I turisti e gli abitanti non si mescolano mai e ben poche comitive di turisti hanno contatti tra loro. I loro divertimenti sono organizzati e ben programmati.”
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Incontri. In giro per le strade di Torino, io e Ornella chiediamo un’informazione ad una donna incontrata per caso. Prima di risponderci, ci chiede da dove veniamo e, saputo che siamo leccesi, subito ci dice con un certo entusiasmo di essere albanese. Ed io: “Noi da Otranto, nelle belle giornate, vediamo le montagne di Valona!”. E tutti e tre sembriamo contenti, pur non conoscendoci, d’esserci incontrati in un posto così lontano da casa nostra, noi che in fondo siamo vicini di casa.
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La tecnica. Nella nuovissima metropolitana di Torino, seduto nello scompartimento di testa, guardo davanti a me il tunnel entro il quale procede il convoglio automatizzato, privo di un guidatore visibile. Dal fondo del tunnel semibuio, ecco spuntare un altro convoglio che procede veloce sul secondo binario in direzione opposta alla mia. Da lontano sembra che sia imminente un catastrofico scontro frontale; ed invece il convoglio ci passa accanto, quasi sfiorandoci – almeno, questa è la sensazione -, e va via, lasciandomi appena il tempo di vedere le sagome dei passeggeri seduti e in piedi della prima carrozza senza guidatore, eppure fiduciosi di arrivare presto a destinazione. Un tempo, giunto in una città sconosciuta, era possibile chiedere informazioni al guidatore di un autobus o di un tram. Ora non più. Al guidatore remoto – un computer – non si possono chiedere informazioni. Per questo ci sono le app dello smartphone. Bisogna avere un’infinita fiducia nella tecnica per viaggiare su questi treni. Bisogna convincersi che la tecnica è la quintessenza dell’uomo, al servizio dell’uomo, e ad essa si deve essere grati come a un servitore premuroso e assente, a cui non si può chiedere nulla che non abbia già dato.
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Nietzsche secondo Verrecchia. Lo studio di Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Bompiani, Milano 2003 (prima edizione del 1978), è fondato su un grande equivoco: quello di voler capire l’opera di Nietzsche esplorandone la vita, in particolare l’ultimo atto della sua vita. Il Verrecchia dimostra di non sapere che l’opera non coincide mai con la vita; tantomeno quella è prodotta da questa in senso deterministico. In più, spinto dal suo scientismo, Verrecchia manca di quella compassione che si deve a un uomo che ha molto sofferto. Pertanto, l’opera di Verrecchia, da cui pure si apprendono molte cose sulla vita del filosofo tedesco, non solo ha un fondamento equivoco che la rende erronea, ma ha anche in sé un che di abietto.
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Di cosa si occupa il filosofo. Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, cit., non crede che Nietzsche sia un filosofo, ma solo “un critico della cultura” (p. 446); e tuttavia spesso è incline a credere che sia un pazzo: ”… parla così un filosofo? E io ho anche l’ardire di rispondere: no, così parla solo un pazzo.” (p. 452) E’ tutto quello che Verrecchia con la sua accuratissima ricerca crede di aver dimostrato. Sentiamo un’ultima volta: “… egli [l’uomo] somiglierà ancora e sempre alla formica caduta nella buca del formicaleone: annaspa e annaspa, la poveretta, sulla terra fine e friabilissima che ricopre le pareti della buca a forma di imbuto, e ha anche la sensazione di andare avanti; ma poi si ritrova sempre nello stesso punto e, quando il formicaleone si è divertito a vederla armeggiare, l’afferra e la inghiotte. Ecco, vorrei che un filosofo mi spiegasse perché questo avviene, e non si limitasse a dire come e in quale direzione la formica, che non ha comunque scampo, debba muoversi. Il resto è littèrature.” (p. 462)
I tratti suggestivi e a volte incisivi della scrittura di Verrecchia non devono trarre in inganno. L’accusa rivolta a Nietzsche è ingiusta e falsa come tutto il metodo di Verrecchia. Infatti, chi è il filosofo che ha mai spiegato il perché della morte? Il filosofo, al contrario, si occupa della vita (proprio del come e della direzione verso la quale andare), e della morte solo in quanto naturale conclusione della vita.
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Curiosità. Nel “Corriere Padano” di Ferrara il 7 marzo 1936 il giovane Lanfranco Caretti “afferma che il Leopardi, nella sua prima gioventù, non era affatto deforme ma addirittura bello e che anche più tardi non fu sfortunato in amore e ‘incontrò certamente il favore delle donne’.”
Lo riferisce Sebastiano Timpanaro, La crisi spirituale del Leopardi, “Belfagor” XLVI, 1991, p. 681.