Era ancora un ragazzino Mario, quando, durante le vacanze estive, lavorava da mastro Coletta Ciabbo, il miglior calzolaio del paese. L’unico capace di realizzare un paio di scarpe di sana pianta.
Le lastre di cuoio, accatastate sotto la tettoia del piccolo magazzino, attendevano pazientemente di essere battute, ammorbidite e tagliate con maestria dalle abili mani dell’artigiano. Poi sarebbe toccato alla pelle di vitello. Infine, come per magia, tomaia e suola si sarebbero sposate perfettamente nella misteriosa operazione della nchiatteḍḍatura. Impeciate e rifinite con il fuoco, alle scarpe mancava solo la lucidatura. L’ultima passata con crema e panno di lana spettava di diritto al primo discepolo. Poi, finalmente, sarebbe entrato in funzione Mario per i recapiti a domicilio. La maggior parte dei clienti veniva a ritirare la scarpe in bottega, ma per le masserie si faceva un’eccezione.
A Mario piaceva molto portare le scarpe ai massari. Uscire fuori, percorrere a piedi le strade del paese e poi gli stradoni fino alla masseria di turno, gli permetteva di rompere la monotonia del lavoro a bottega e scorazzare un po’ all’aperto.
Sui muretti a secco le lucertole cercavano di mimetizzarsi tra le pietre brunite dal sole e i rovi che, bruciati l’anno prima, erano rispuntati prepotentemente. Di tanto in tanto si fermava a mangiare qualche mora, accontentandosi di quelle che trovava a portata di mano. Con le scarpe nuove nella mano sinistra, avvolte con cura nella carta di giornale, non poteva certo arrampicarsi sui muretti per raggiungere in alto le more più grosse e mature. E di lasciare le scarpe su qualche muro, anche solo per qualche minuto, non se ne parlava nemmeno.
Il grano era ormai maturo. Le spighe dorate ondeggiavano lievemente ad ogni alito di vento, chinando mestamente la testa, quasi presaghe dell’imminente mietitura. A destra, nella zona più vicina alla masseria di padron Toricchi Spini, la sulla rosseggiava a perdita d’occhio. Il vento ne portava il profumo fin sul viottolo. Toricchi e i suoi figli ne avrebbero ricavato ottimo foraggio per i vitelli da ingrassare alla catena.
Ecco la curva che portava alla masseria: ancora qualche centinaio di metri e sarebbe arrivato.
Billi, legato al grande cancello di ingresso, non abbaiò. Orami conosceva Mario molto bene. Lui si fermò ad accarezzarlo sulla testa. Poi ricordò di avere in tasca un pezzo del panino con la mortadella che gli era avanzato dalla merenda mattutina. Lo tirò fuori e lo diede a Billi, che lo divorò in un solo boccone. Non mancò però di dimostrargli la sua riconoscenza leccandogli le mani e scodinzolando.
– Patrunu Toricchi. Patruna Nena. Ho portato le scarpe nuove.
Nessuna risposta. La masseria sembrava deserta. Che fossero tutti nei campi?
Mario varcò il cancello e si portò verso la stalla. Avrebbe dato un’occhiata ai vitelli. Era proprio curioso di vedere quanto erano cresciuti dall’ultima volta che li aveva visti. Passando davanti al fienile, si accorse che la porta era socchiusa: forse c’era dentro qualcuno. Stava per chiamare di nuovo, quando la scena che gli apparve davanti agli occhi gli strozzò la voce in gola.
Teresa, la prosperosa figlia del massaro Toricchi, era distesa bocconi sopra un covone di fieno con la gonna tirata su fino alla vita. Piegato su di lei, Antonio, il giovane lavorante, si muoveva avanti e indietro ansimando rumorosamente. Anche Teresa emetteva degli strani mugolii.
Che stavano combinando? Mario non capiva bene. Poi ricordò quando nella stalla dei Salesiani aveva visto la monta del toro. Allora, in un attimo, capì tutto. Non doveva farsi vedere. Ma come fare? Le scarpe non poteva certo riportarle indietro a maestro Coletta.
Tornò sui suoi passi, lesto e silenzioso come un gatto. Giunto nel cortile d’ingresso, si sentì mancare il fiato: aveva le ginocchia molli. Tirò un grosso respiro, contò fino a trenta, poi con voce altissima chiamò:
– Patrunu Toricchi. Patruna Nena. Mario sono. Ho portato le scarpe.
Niente. Nemmeno un fiato. Aspettò un poco, poi tornò a chiamare di nuovo.
Dopo qualche minuto apparve Teresa. I capelli scarmigliati, il viso rosso, un filo di fieno impigliato nella gonna.
-Ah! Sei tu, Mario. Vieni, vieni che ti do un po’ di fichi con le mandorle.
Mario avanzò con il solito passo veloce, cercando di fare l’indifferente, ma si accorse con dispetto che il rossore gli stava imporporando il viso.
A Teresa bastò guardarlo un attimo negli occhi per capire che il ragazzino aveva visto tutto. Rapidamente pensò a cosa fare. Il mese prossimo si doveva sposare con il suo fidanzato ufficiale, Pietro, figlio del massaro Nicola Torrani. Se il ragazzo avesse parlato sarebbe stato un disastro. Atteggiò il viso ad un’espressione di serena allegria e disse:
– Aspettami un attimo qui, Mario. Lo sai che il mese entrante mi sposo: perciò voglio farti un regalo speciale.
Entrò nello stanzone che fungeva da cucina e sala da pranzo e, dopo qualche minuto, ne uscì con un canestrino colmo di fichi secchi mandorlati.
– Io lo so che sei un bravo ragazzo, Mario. Se tu sapessi un segreto di un amico… o di un’amica… non lo diresti a nessuno. Non è vero?
– Beh… non so… no… no, certo. No. – farfugliò Mario.
– Bravo. Io lo so che sei un amico. E anch’io ti voglio mostrare la mia amicizia. Ecco i fichi. Tieni, prendi anche queste cinque lire: comprati un bel gelato.
Il trillo insistente della sveglia lo buttò giù dal letto. Già le sei e venti! Doveva sbrigarsi Mario, se voleva arrivare in ufficio per le otto. A Milano erano tutti puntualissimi, e lui, terrone immigrato da due anni, non si poteva certo permettere il lusso di arrivare in ritardo. Non lo voleva perdere quel lavoro.
In bagno, mentre si sbarbava, gli tornò in mente il sogno. Era successo di nuovo. Ancora una volta il paese natale. Ancora una volta l’infanzia. Ricordi e sogni, sogni e ricordi, che si rincorrevano, si intrecciavano, si confondevano tra loro.