La difficoltà di scrivere oltre la cronaca

In fondo non si scrive mai nient’altro se non quello che passa dentro gli occhi, nella mente, sulla pelle. Anche nelle storie di finzione succede questo, quantomeno negli aspetti di riflessione da parte dei personaggi, che, bricconi, si appropriano dei pensieri e dei sentimenti e delle passioni del loro autore.

Probabilmente esistono innumerevoli modi per rappresentarsi e per rappresentare il mondo. Modi soggettivi o collettivi, di esistenza, di civiltà.

Qualcuno lo fa con l’arte, qualcuno con la scienza, qualcuno con un pensiero silenzioso. Ogni civiltà rappresenta il mondo con i propri valori e con i  propri criteri.

Chi lo fa attraverso la scrittura, cerca in questa modalità le condizioni che consentono di aderire alla realtà e, allo stesso tempo, di allontanarsene.

Probabilmente ha necessità dell’allontanamento, in quanto quella situazione gli offre la possibilità di interpretare i fatti senza un coinvolgimento emotivo sovrabbondante che lo frastorni.

Ma qualche volta non ci riesce. Quando i fatti che accadono sono straordinari, come quelli che accadono in questi giorni nel mondo che gira intorno a ciascuno di noi,  non ci riesce.

Così non sa che scrivere. Si impone di scrivere altro ma non c’è altro che riesca a scrivere.

Non c’entra niente la sindrome del foglio bianco. Quello che c’entra è il senso che si vorrebbe dare  al foglio riempito.

Ancora una volta, si ha consapevolezza che per scrivere ci si dovrebbe allontanare dai fatti, ma  non si riesce a determinare una condizione di lontananza. Per cui si rimane vicini e rimanendo vicini non si riesce a scrivere.

Non saprei dire se possa avere –ancora-  un qualche senso una scrittura sull’impossibilità della scrittura, anche perché per tutto il Novecento non si è fatto altro che scrivere di questo. Però se si volesse trovarlo, un senso, forse si potrebbe dire che la confessione di impossibilità costituisce una prova del fatto che la scrittura non può che sprofondare nella realtà e la realtà non può che riconoscersi nella scrittura che riemerge dallo sprofondo.  

Si tratta di un’opinione, senza dubbio, che magari si potrebbe sostanziare con la motivazione che una scrittura collocata fuori da questo tipo di relazione, forse si risolve in esercitazione e in artificio. Quindi non ha funzione, oppure ha una funzione marginale. Quindi non ha un senso, oppure si tratta di un senso marginale, del tutto ininfluente.

Non sapevo che cosa scrivere, stavolta. Non mi sono nemmeno messo a fare una prova. Certo, avrei anche potuto non scrivere niente. E’ la prima volta che mi succede. Non è una bella sensazione. Anzi, è una brutta sensazione. Si avverte un vuoto. E’ come se ti ritrovassi fra amici e non avessi niente da dire, da raccontare.

Così confessi che avresti da dire soltanto quello che gli altri sanno già e di cui parlano con conoscenze maggiori rispetto alle tue, per cui è meglio che te ne stia in silenzio, ad ascoltare soltanto. Tanto sono amici. Ti capiscono.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 15 marzo 2019]

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