A ventidue anni Fefé conobbe Fanny che ne aveva sedici e si innamorarono. Li vedevi sempre insieme, dove c’era uno c’era l’altra, senza possibilità di errore. Avevano uno strano modo di camminare insieme, lui avanti, e lei un passo indietro. Tuttavia si capiva che non c’era in Fanny nessuna sudditanza psicologica rispetto a Fefé, ma come un desiderio di seguirlo e di intuirne le mosse. Io allora non ero amico di Fefé, che mi sembrava molto più grande di me e quasi irraggiungibile; mentre invece andavo spesso a trovare Fanny, mia compagna di scuola, per fare i compiti insieme.
Fanny era una ragazza chiusa e introversa, andava male a scuola e nessuno aveva mai capito perché. Quando conobbe Fefé le sembrò di rinascere e di avere finalmente uno scopo nella vita. Da allora si mise a studiare e fu in breve tempo la prima della classe. Io so che Fefé e Fanny fecero un patto, che mai Fanny avrebbe dovuto provare che cosa vuol dire iniettarsi nelle vene quella sostanza biancastra che ha nome eroina. Fanny più volte aveva avuto la curiosità di provare, ma se ne era astenuta per non violare il patto che la univa a Fefé. Questo lo so con certezza, perché Fanny mi raccontava tutto, come per una sorta di ricompensa. E’ difficile spiegarlo, ma Fanny sapeva che io ero innamorato di lei, d’un amore intenso e segreto, e ricevendo le sue confidenze mi sentivo almeno un po’ ricambiato. Fefé di sicuro lo aveva capito, ma non si opponeva ai nostri incontri, poiché allora gli sembravo solo un adolescente immaturo.
Ricordo Fefé intervenire con scandalo nelle assemblee cittadine convocate per discutere il problema della droga, e dir male, con frasi sconnesse, audaci fino al limite dell’ingiuria, delle persone “incravattate”, come diceva lui, e i lunghi silenzi dei suoi discorsi improvvisati, delle confessioni che nessuno mai avrebbe voluto ricevere, tanto meno in un dibattito pubblico sulla droga; e l’imbarazzo generale, e poi le proteste degli “incravattati” che invocavano l’intervento della polizia, che lo portassero via, il farneticante! E lui se ne andava via, accompagnato da Fanny, anche lei una drogata, secondo l’opinione generale. Eppure molti gli invidiavano la compagna inseparabile, e non capivano come una ragazza così carina potesse stare con quel pazzo-drogato di Fefé.
Poi giunse il tempo delle cure d’ospedale, dei ricoveri, del metadone, della disintossicazione. Di questo calvario ricordo gli spasmi incontenibili delle crisi che non potevano essere celate nella piazza del paese, le corse verso l’ospedale nella sua cinquecento nera dalla marmitta scoppiettante, che aveva sostituito la moto Morini nelle scorribande cittadine. Fanny passava intere giornate vicino al letto di Fefé, come un’infermiera premurosa, come una sorella più che come un’amante. Ce l’ho ancora fissa nella memoria l’immagine di Fanny seduta nella sala d’attesa dell’ospedale, con un libro in mano, che legge nella luce dei neon, aspettando il risveglio di Fefé.
Non so come lei abbia trascorso l’orribile inferno delle giornate noiose, inutili, senza speranza, come abbia sopportato le numerose ricadute di Fefé, con quale forza abbia respinto la coscienza della fine imminente che avrebbe tolto a chiunque ogni residua illusione di salvezza.
Fanny dopo il liceo si era iscritta alla facoltà di Medicina e dava gli esami con regolarità. Tornava spesso a casa per incontrare Fefé, per stare con lui, quando Fefé non poteva prendere il treno per raggiungerla.
Un giorno in paese tutti parlavano di Fefé. Dicevano che si era buttato dal decimo piano d’ospedale in una città del Nord, dove si era recato per disintossicarsi, e si era salvato! Si era buttato dalla finestra del bagno per farla finita con quella vita di sofferenza, ed era caduto giù, giù, fin sopra un tendone, di quelli che riparano i balconi dal sole d’estate e vengono dimenticati aperti d’inverno, e su di esso era rimbalzato per ricadere su un mucchio di neve, per strada: vivo, senza neppure un graffio!
Da quell’epoca data il tempo dell’intolleranza, dell’insofferenza, della reclusione; e quel tempo non so come Fefé e Fanny lo abbiano vissuto, perché per anni le circostanze della vita ci hanno diviso, facendoci incontrare sempre più raramente.
Un giorno seppi che Fefé era riuscito a smettere e a disintossicarsi.
Due anni fa lo rividi per l’ultima volta: non stava molto bene, lo si vedeva dalla faccia ossuta, dal colorito livido, dal respiro a tratti affannoso. Era una notte d’estate, una di quelle notti calde e afose, durante le quali nella piazza del paese si chiacchiera fino alle tre di notte perché non si ha voglia di lasciare gli amici e andare a dormire. Avevamo accompagnato a casa Fanny, vincendo la sua resistenza, perché lei voleva essere accompagnata a casa sempre per ultima, e ci attardavamo in macchina mia senza motivo, almeno così pensavo, nel bel mezzo della piazza semideserta. Fefé aveva trentaquattro anni e la differenza d’età tra me e lui non era più importante come un tempo.
Voleva parlarmi: mi ripeteva che bisognava fare tutto il possibile per “educare” i giovani a tenersi lontano dalla droga, sembrava ossessionato da questo pensiero. Usava proprio il termine “educare” perché sapeva che avevo trovato lavoro come insegnante in una scuola del Nord. Gli dicevo di sì, che aveva ragione, ma lui non sembrava mai soddisfatto dei miei assensi, vi intuiva una qualche falsità; forse ero io a sorridere con ironia senza avvedermene, considerando dentro di me la parabola della sua breve vita – già allora, difatti, ne scorgevo la fine -, oppure ero semplicemente stanco di chiacchierare e volevo andarmene a casa. In paese si diceva che Fefé avesse l’Aids e che questa volta di sicuro non l’avrebbe scampata.
Fefé oggi è morto, e dicono che la causa sia stata un raffreddore; nessuno lo vedrà più in giro per il paese e non se ne parlerà più, né bene né male. Io vado spesso a trovare Fanny che oggi è medico e lavora in un ospedale. So che quando mi rivede è contenta. Le ricordo il periodo della nostra giovinezza durante il quale io ero innamorato di lei e lei di Fefé che ora non c’è più.
(1999)