di Gianluca Virgilio
Dicevano che non sarebbe mai morto, che avesse sette vite come i gatti, da quando a quindici anni girava per le strade del paese su un Morini 50 senza marmitta, rumorosissimo, tanto che al suo passaggio i vetri delle finestre tremavano e sembravano scossi anche i muri delle case. Chissà quante maledizioni i compaesani gli avranno mandato! Ma Fefé passava veloce e scompariva dietro l’angolo della strada, alla prima svolta che imboccava, piegandosi in sella e quasi toccando l’asfalto col ginocchio. Le maledizioni cadevano nel vuoto, senza neppure sfiorarlo.
Ricordo bene, come fosse ieri, che cosa accadeva nel circuito del campo da cross, nei pressi del macello comunale. Fefé saltava sulle cune come un pazzo e tutti gli amici, dai bordi della pista, con un po’ di cattiveria, lo incitavano a saltare, contro ogni buon senso, poiché la sua non era una moto da cross. Già allora egli poteva morire, come Mimmo, che cadde con la moto sul curvone che dalle Canne porta a Rivabella, lungo la baia di Gallipoli, rompendosi la testa; o come Marco, che andò a sbattere con l’auto del padre contro un olivo: dissero poi ch’era ubriaco.
Nell’accingermi a raccontare questa storia sono cosciente che solo per una serie di circostanze fortuite non partecipai ai segreti riti che si compivano in un’auto, a sera, vicino al cimitero o dietro una cuna del campo da cross, quando nessuno vi correva, o nei pressi del casello ferroviario, in una casa cantoniera sporca e disabitata. Allora ero un ragazzino e mi sembrava che quei giovani riuniti in disparte venerassero una divinità sconosciuta e misteriosa; non sapevo – non lo sapevano neppure loro – che celebravano un rito di cui sarebbero divenuti presto vittime sacrificali.