La distanza non deve diventare separazione

Se mai accadesse – ma non accadrà – che la condizione della distanza fisica si trasformi e degeneri in separazione mentale, si verificherebbe lo sbriciolamento di uno di quegli ideali sui quali la più evoluta delle civiltà si fonda. Ma si verificherebbe anche il franamento del senso che struttura e conforma le relazioni sociali.

Stringere la mano dell’altro non è soltanto un gesto rituale. Dentro, in fondo, ha il significato profondo del gesto che rende concreto un rapporto.

Quando non si stringe la mano, si esprime un rifiuto, un’indifferenza, un allontanamento. “Non gli darò più la mano”, si dice, per significare una frattura, l’interruzione di una relazione.

Poi si dice: “ci siamo ridati la mano”, per significare un’avvenuta riconciliazione, la ricomposizione della frattura, il ripristino della relazione. 

A pag. 33 di un libro di quarant’anni fa, intitolato “I linguaggi della comunicazione umana”,  Ashley Montagu e Floyd Matson sostengono che l’origine della stretta di mano è oscura, e il suo significato è stato variamente interpretato. Secondo l’opinione comune, la stretta di mano è sempre stata un segnale di intenzioni pacifiche e amichevoli, in quanto presentare la mano aperta significa dimostrare l’assenza di armi.

Ma questi sono i giorni della stretta di mano evitata. Sono i giorni della distanza, ad un metro uno dall’altro. Possibilmente anche di più. Perchè quello spazio dovrebbe preservarci dall’insidia. Però in questa condizione di distanza, è necessario, essenziale, continuare a stringersi la mano col pensiero. Non stabilire con l’altro una condizione di separazione, non determinare una situazione di lontananza. Si deve, invece, provare nostalgia per una mano che ne incontra un’altra. Si deve avvertire comunque una sensazione di vicinanza, di affinità, di appartenenza. Tornano alla memoria alcuni versi di Rainer Maria Rilke, che fanno così: “Noi ci tocchiamo./ Con che cosa?/
Con dei battiti d’ali./ Con le stesse lontananze/  ci tocchiamo”.

I battiti d’ali sono il pensiero. Le lontananze che si toccano sono il miracolo che compie il desiderio. Ma a condizione che la lontananza non sia separazione.

Forse può essere anche soltanto per una nostalgia che la distanza non si fa separazione, che la necessità di una difesa non si trasforma in divisione, in allontanamento sentimentale.

Non si può neanche escludere che gli accadimenti di oggi ci restino sulla pelle come una cicatrice, che nel tempo a venire si continui a provare paura del contatto con l’altro, di un contagio.

Allora avremo urgenza di superare la paura, di convincerci che gli strappi si possono e si devono ricucire.  

Quanto tempo ancora ci vorrà non lo sappiamo dire. Si spera che sia poco, che sia davvero poco.

Però, poi, a pensarci, non ci importa molto delle propagazioni che i fatti di questi giorni potranno provocare  sugli adulti. A pensarci non ci importa molto se gli adulti da questo tempo in poi eviteranno  di darsi la mano. Perché comunque avranno memoria della bellezza che aveva questo gesto. A loro anche solo il ricordo potrà bastare.

Invece ci importa molto  dei bambini. Anche la consuetudine, il costume del loro darsi la mano, potrà essere uno degli elementi che influiranno sulla  forma e la sostanza della civiltà. Si spera che a loro passi molto in fretta la paura, che si determino le condizioni che consentano di riprendere le relazioni autentiche, spontanee. Per non negarsi la possibilità  di sentire la concreta bellezza della vicinanza.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 8 marzo 2020]

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