di Antonio Errico
Così, all’improvviso, abbiamo imparato a fare esperienza della distanza, della sua ragione, del suo sentimento. All’improvviso abbiamo imparato anche la sconosciuta e spiacevole sensazione della distanza. Non avvicinarsi, non toccarsi, non darsi la mano. Niente più pacca sulla spalla. Niente più braccio sotto il braccio. Ci siamo imposti una frontiera immaginaria. Abbiamo alzato un muro immaginario fra noi e l’altro. Abbiamo aperto – spalancato- uno spazio vuoto fra le esistenze. Però vogliamo credere che quello spazio non sia una frontiera, che non sia un muro. Forse, si spera, che sia soltanto un fiume che passa calmo fra noi e l’altro. Si spera che sia un fiume. Perché il fiume scorre incessantemente, il fiume è vita. Il fiume non è separazione. Si può navigare, si può oltrepassare.
Forse dovremmo pensare e sperare proprio questo. Forse dovremmo elaborarci un’idea che distingua nettamente il concetto di distanza da quello di separazione e dare costante applicazione a questa idea. In fondo si può essere vicini anche quando esiste una distanza, come si può essere distanti anche quando si è molto vicini. Anche lo spazio e il tempo sono intimamente governati dall’emozione.
Così, per la prima volta, così, all’improvviso, in questa civiltà che, con tutte le sue contraddizioni, con tutte le sue turbolenze, è la più evoluta delle civiltà esistite, ci si ritrova a confrontarsi con la distanza fra noi e l’altro. Ci si ritrova a farlo in questa civiltà, ancora, che ha elaborato la teoria esistenziale e la prassi della prossimità, della contiguità, della vicinanza, dell’essere con l’altro, per l’altro.