Non per questo, però, era rimasto ancora una volta senza giornata.
A dispetto di quella esilità, era dotato di un’energia e di una resistenza alla fatica davvero insospettabili e sorprendenti.
Intanto, dalle nuvole che l’avevano coperta fino a quel momento, era spuntata una splendida luna piena che illuminava quasi a giorno la piazza, i palazzi e le vie circostanti. Ammaliato, trasognato e pressoché inebetito da quell’argenteo lucore, Salvatore si vedeva scorrere davanti agli occhi la sua vita passata.
Rimasto senza padre alla tenera età di sette anni, era stato tirato su dalla madre, Maddalena Pati, con le mollichine di pane, come un uccellino di rovo.
Tutto il giorno a servizio, ora da una e ora da un’altra delle signorone del paese, la sera Maddalena si consumava gli occhi al lume a petrolio, ricamando fino a tarda notte centrini e guarnizioni per lenzuola e tovaglie, che poi vendeva a ben misero prezzo.
Quanto aveva sofferto e lavorato, quella santa donna. E i soldi non bastavano mai.
Ben presto Salvatore aveva dovuto abbandonare la scuola per andare a bottega da mastro Nicola Cautazzaro, gigantesco fabbro del paese che lo aveva sfruttato nel lavoro di battitura del ferro per cinque anni, salvo poi licenziarlo su due piedi non appena uno dei figli era diventato abbastanza grande da poterlo aiutare nell’officina.
Allora Salvatore, ormai quindicenne, aveva cominciato a lavorare come giornaliero in campagna.
Raccolta delle ulive, mietitura e vendemmia, sarchiatura e spietramento dei campi gli consentivano di tirare avanti alla meno peggio insieme alla madre, ormai quasi completamente cieca.
Il lavoro più duro era la scatina, cioè lo scasso profondo del terreno, che all’epoca veniva praticato a mano mediante enormi zappe del peso di cinque chili. Tuttavia Salvatore, ad onta del suo aspetto e della sua costituzione, non si era mai tirato indietro e aveva affrontato più volte quel lavoro massacrante con la solita caparbietà e determinazione.
Così si trascinò la sua vita per diversi anni. Poi all’improvviso la situazione precipitò quando una misteriosa febbre, di cui non venne mai diagnosticata la natura, gli portò via nel giro d’una settimana la povera mamma.
L’amarezza del ricordo gli fece groppo in gola e Salvatore risentì il dolore di quella perdita con una intensità così viva e prepotente che gli sembrò quasi di rivivere quei momenti angosciosi, come se la madre fosse morta allora, quella sera di luna piena, e la vedesse lì, davanti a lui, nella bara attorniata ancora da parenti e vicini.
Era rimasto solo nella piccola casa che suo padre aveva ereditato dal nonno: uno stanzone da letto che serviva anche da sala da pranzo, una stanzetta, un cucinino e un cesso, cui si accedeva dal giardinetto retrostante. L’unica zia che aveva, sorella di suo padre, viveva in un paesino a trenta chilometri di distanza; sicché, passato il periodo di lutto stretto, Salvatore decise di prender moglie.
Teresa Murri lui la conosceva da quand’era una bambina. Figlia di poveri braccianti, aveva la carnagione chiara e i lineamenti di un’eccezionale finezza, un carattere dolce e un tocco di femminilità così incantevole che Salvatore se ne era innamorato fin da ragazzo. E lei, nonostante non fosse propriamente bello, lo aveva subito amato per la sua bontà e delicatezza d’animo.
La cerimonia fu di una semplicità spartana. Dopo il matrimonio in chiesa, pochi dolcetti fatti in casa e un bicchierino di rosolio per i compari, i parenti e qualche amico.
La guerra era finita da poco. La monarchia era stata sconfitta nel referendum del 1946 e tanti si erano illusi che con il ritorno alla democrazia tutto sarebbe finalmente cambiato. Anche lui ci aveva sperato. E invece non era cambiato proprio un bel niente.
I vecchi podestà si erano trasformati in sindaci, i notabili e i maggiorenti erano diventati di colpo tutti antifascisti, e gli agrari continuavano a fare il bello e il cattivo tempo sfruttando coloni, mezzadri e giornalieri.
Anche nel suo paese era avvenuta la stessa cosa. Il farmacista, l’avvocato e alcuni maestri delle scuole elementari si erano aggregati alla lista civica formata dall’ex podestà, il quale poi altri non era che il più grande latifondista della zona.
E quella lista civica aveva vinto le elezioni.
Salvatore e un pugno di diseredati come lui, seguendo il sol dell’avvenire, si era tesserato al partito comunista. La sezione era un bugigattolo di pochi metri quadrati: giusto il posto per un vecchio tavolo che fungeva da scrivania, tra due bandiere rosse poggiate agli angoli, e quattro sedie per le riunioni. Dietro il tavolo, appesi alla parete, campeggiavano i ritratti di Marx e Lenin.
Allora gli tornarono alla mente le discriminazioni che aveva subito in tante occasioni. Una in particolar modo gli rinfocolava la rabbia per l’ingiustizia patita.
Il comune aveva iniziato a sistemare piazze e strade. Serviva manodopera senza alcuna qualificazione per spaccare le pietre che sarebbero state utilizzate per le massicciate. Lui, al pari dei più poveri del paese, ci s’era buttato dentro con tutta l’anima. Il lavoro era duro e spossante, ma Salvatore si impegnava con tutte le sue forze.
Si lavorava dall’alba al tramonto, con una pausa di un’ora per mangiare una frisa, bere un po’ di vino e riprendere fiato. Dopo diversi mesi, all’improvviso, il caposquadra comunicò che l’assessore ai lavori pubblici aveva deciso di ridurre la pausa a mezz’ora. La ribellione nacque spontanea tra tutti gli spaccapietre. Ne venne fuori uno sciopero che durò appena tre giorni. Poi Salvatore e Paolo, compagno socialista della vecchia guardia, riconosciuti come capi e promotori della protesta, vennero licenziati.
E intanto, da qualche mese, le bocche da sfamare erano aumentate. Il piccolo Vladimiro aveva preso tutto da sua madre e Salvatore non perdeva occasione per tenerselo in braccio e colmarlo di baci e carezze.
Teresa lo aveva messo al mondo da sola, con l’aiuto di una vecchia zia. La levatrice, prontamente chiamata da Salvatore, gli aveva risposto che non aveva tempo da perdere con gli straccioni e che doveva correre a casa dell’assessore all’annona, alla cui moglie erano venute le doglie.
Trovare una giornata di lavoro era diventato sempre più difficile. Erano già otto giorni che Salvatore non portava una lira a casa e la situazione stava diventando insostenibile.
Occorreva trovare una soluzione, a qualunque costo.
L’orologio della torre batté l’ora. Salvatore si riscosse da quello strano torpore che lo aveva assalito e si avviò lentamente verso casa. Teresa, quando lo vide rincasare mogio mogio con il muso lungo come un cane bastonato, capì subito che ancora una volta non aveva trovato giornata. Come sempre non gli chiese niente e con finta indifferenza apparecchiò la tavola. Vladimiro dormiva placidamente.
La notte Salvatore non chiuse occhio. Si girò e rigirò nel letto. Lo spettro della fame non lo faceva dormire. Pensava a Vladimiro così piccolo e indifeso, e alla sua Teresa, che certamente avrebbe meritato ben altra vita. Alla fine si ricordò del vecchio Giovanni.
La cava era senza minatore da due giorni. L’addetto al brillamento delle mine, Giovanni Balestra, colpito da un ictus, era rimasto paralizzato nella parte destra della persona. Bisognava fare presto, prima che qualcun altro si presentasse per prenderne il posto.
Quel lavoro era massacrante. Il minatore, quando non preparava le buche in cui alloggiare le mine o non le faceva brillare, lavorava di piccone come tutti gli altri cavamonti, sicché allo stress psicologico si aggiungeva la durezza della fatica fisica. Insomma era quello che lavorava più di tutti.
Teresa, con le lacrime agli occhi, cercò di opporsi in tutti i modi alla decisione del marito, ma Salvatore fu irremovibile. Si levò di buonora, andò alla cava, si offrì come minatore e fortunatamente venne assunto.
Passarono diversi mesi: le cose andavano decisamente meglio.
Finalmente un lavoro fisso con un salario che, se ancora non gli permetteva di ampliare la casa o comprare dei mobili nuovi, gli consentiva quantomeno di guardare al futuro con un minimo di serenità.
Teresa, però, sentiva uno strano timore, quasi un presentimento di sventura vago indefinibile e sottile che le attraversava la mente a tradimento, nei momenti più impensati della giornata.
La notte era ancora peggio. Un’ansia continua, un’inquietudine profonda, una sensazione di vuoto e di stanchezza cui si erano aggiunti ultimamente degli improvvisi piccoli tremori che le avevano provocato una strana forma di insonnia. Dormiva a tratti, svegliandosi più volte nel cuore della notte con il cuore in gola.
La cosa andava avanti da più di un anno, ma Teresa non ne aveva mai fatto parola a Salvatore, anzi aveva fatto di tutto per mascherare quel suo stato di continua tensione, eludendo le domande del marito e negando recisamente qualsiasi cambiamento.
Stesse tranquillo almeno lui che faceva un lavoro tanto pesante, il suo Salvatore, così buono e gentile. L’aveva sempre adorata e con le sue piccole attenzioni e premure, pur nelle ristrettezze economiche in cui vivevano, l’aveva sempre fatta sentire una regina.
Ma in realtà, Teresa non cantava più, come era solita fare prima per tutto il giorno. Per fortuna aveva Vladimiro cui badare. Era proprio un bel bambino! Tutto il suo ritratto. Solo il colore degli occhi aveva preso dal padre.
La notizia scoppiò come una bomba. C’era stato un incidente alla cava. Salvatore era rimasto ferito. Così le aveva detto Giovanni Strazzera, ma Teresa il botto l’aveva sentito già prima, dentro il suo cuore.
Spettinata, senza fazzoletto in capo e ancora con il grembiale di cucina addosso, corse come una pazza alla cava. Scansò decisamente tutti quelli che volevano fermarla e si precipitò nella casetta del capocantiere.
Salvatore era steso per terra, il corpo orribilmente devastato dall’esplosione, le braccia aperte come un cristo in croce. Gli occhi, quei suoi occhi azzurri tanto particolari, sembravano fissare il cielo, come faceva quando si incantava a sognare o si infervorava parlando del “sol dell’avvenire” che ormai non poteva tardare ad arrivare.
Forse l’aveva finalmente trovato.