È Filippo di Majorca il più antico ispiratore degli affreschi di s. Caterina a Galatina?

1.L’Apocalisse è considerata il libro che ha per protagonista s. Francesco e per destinatario il suo Ordine. S. Francesco è perciò identificato in numerose figure lì presenti.

2. Gli eventi descritti nell’Apocalisse riguardano l’attualità e gli Spirituali posseggono in modo esclusivo gli strumenti per interpretare le Scritture e prepararsi agli ultimi eventi.

3. La Regola ed il Testamento di s. Francesco sono i cardini su cui orientare la propria condotta di vita ma sono considerati al pari di testi sacri, che rivestono valore assoluto di rivelazione.

4: La polemica con la Chiesa (che nel periodo è quella prima avignonese, poi scismatica), che non condivide queste opinioni, è costante e serrata tanto da assumere i contorni di aperta contestazione.

4. Tutto il programma decorativo di s. Caterina serve di spiegazione e preparazione a questo tempo finale, per cui tutta la navata centrale di s. Caterina è parte di un unico organismo.

Se dobbiamo riconoscere che gli esecutori dei cicli di s. Chiara sono Giotto e la sua scuola, ciò che essi hanno realmente in comune con s. Caterina non sono solo le immagini quanto le fonti di ispirazione. Possiamo sostenere che all’interno del convento di s. Chiara, nel periodo intorno al 1330, la mente raffinatissima in grado di concepire e dettare le composizioni e i particolari dei dipinti, che nella forma di studi preparatori sono rappresentati sulle Tavolette di Stoccarda, è Filippo di Majorca, che è fratello della regina Sancia, francescano Spirituale e risiede in questo stesso convento. Sia Giotto che Filippo hanno dunque in comune sia lo stesso periodo (quando Filippo giunge a Napoli nel 1329 Giotto era già lì e vi rimarrà per altri tre anni) che lo stesso luogo di permanenza. Non solo; grazie ai contatti con la corte di cui Filippo certamente godeva, egli è il solo che, avendone la preparazione specifica e le stesse convinzioni, possa aver influito direttamente, in qualità di ispiratore, sulla stesura dei cicli degli affreschi, dettandone il programma nella sua interezza, sia la successione delle scene che i particolari e i simboli delle figure. Non è infatti concepibile che particolari così dirompenti possano essere stati concepiti dalla mente di Giotto, anche se queste idee non dovevano essergli del tutto estranee, come risulta dalla stesura del suo ciclo nella cappella Bardi in s. Croce a Firenze. Ma qui non si tratta di influenze: questo è un manifesto sistematico, che accoglie concezioni sedimentate in un secolo di evoluzione, è la visione di uno che crede di aver raggiunto la comprensione del significato profondo e definitivo delle Scritture, un cosiddetto “angelo di Filadelfia”. Non è questa la sede per approfondire la lettura del ciclo di s. Caterina, ma questo dato è di tutta evidenza e risulta imprescindibile. Soprattutto, ciò che più conta rimarcare è che questo era al di là della capacità immaginativa di Giotto e di qualsiasi membro di una scuola pittorica. 

Sono a questo punto necessarie alcune informazioni sulla biografia del personaggio, per verificare i punti di contatto fra la sua vita e le opere qui prese in esame.

Appartenente alla famiglia regnante a Majorca, studia Arti liberali e Teologia a Parigi, prima di entrare nel Terz’ordine francescano nel 1285. Assume la reggenza del regno di Majorca in nome del nipote, Giacomo II, ancora fanciullo. Conosce nel 1311 Angelo Clareno (francescano Spirituale che dopo la morte di Pietro di Giovanni Olivi [1298] aveva assunto la guida di questo settore dell’Ordine) e ne diviene il discepolo prediletto, intrattenendo con lui una corrispondenza che si prolungherà nel tempo e ospitandolo a Majorca nel corso del 1313. Va vista nell’ottica dell’influenza che Clareno esercitò su di lui la decisione di rinunciare a qualsiasi titolo ecclesiastico gli venisse proposto. Nel 1329 si trasferisce definitivamente a Napoli, dove sua sorella Sancia è regina, nel convento di s. Chiara, dove vive una vita di mendicità, inseguendo il sogno, irrealizzabile, di fondare un suo Ordine in cui la Regola francescana fosse vissuta alla lettera in tutta la sua pienezza e rigore, sulla base delle indicazioni contenute nel Testamento di s. Francesco. Al rifiuto oppostogli da Giovanni XXII alla sua richiesta di autorizzazione per la istituzione di un tale Ordine, il 6 dic. 1329 tiene una predica in cui attacca con violenza il pontefice, accusandolo di perseguitare i veri seguaci del Vangelo. Il papa lo definirà in seguito “ribelle notorio, capo di una setta condannata […] di eretici”. Nel 1340, fra’ Pauluccio Trinci, il fondatore dell’Osservanza, presenta una nuova supplica sullo stesso tema da parte di Filippo, questa volta diretta a Benedetto XII. In seguito alla risposta negativa da parte anche di questo pontefice, Filippo sparisce dalla scena e non si sente più parlare di lui. Si presume sia morto non molto dopo. Ma la comunità da lui fondata non si estinse con lui se ancora nel 1362, in un processo per eresia intentato contro il conte Luigi (o Ludovico) di Durazzo, accusato di proteggere i Fraticelli, un testimone citava ancora i fratres Philippi de Maioricis come setta di seguaci di Angelo Clareno. La chiusura e la impermeabilità di un ambiente claustrale, insieme alla protezione assicurata dalla monarchia napoletana e alla sospensione per tutto il periodo dello Scisma dell’attività dell’Inquisizione, oltre al favore che il movimento degli Spirituali godeva fra la popolazione, devono aver consentito la sopravvivenza di questa tanto discussa comunità francescana, almeno fino a quando non verrà di nuovo messa alle strette a seguito dell’elezione di Martino V (1417) e della sua politica di normalizzazione e accentramento ecclesiastico. Se lo stesso apparato iconografico risulta riproposto per tutto il quattordicesimo secolo in una consistente produzione di manoscritti di cui la Bibbia Hamilton e la Bibbia di Vienna (della loro relazione con le Tavolette di Stoccarda abbiamo parlato ne Il Titano n. 12 del 25 giugno 2019) sono testimonianza, ciò significa che la ripetizione era associata dai committenti al bisogno di conservare in una apparente integrità qualcosa che doveva essere preservato poiché andava oltre il semplice corredo illustrativo di immagini. S. Caterina rappresenta quindi il canto del cigno di questa setta che ha qui l’occasione, forse la sua ultima, di dare voce alle sue convinzioni attraverso gli affreschi, così come, quasi un secolo prima, aveva fatto il suo primo maestro e guida, Filippo di Majorca.

Possiamo concludere col dire che i dati che emergono dallo studio degli affreschi di s. Caterina e delle Tavolette di Stoccarda, confrontati con quelli relativi alla vita e alla formazione culturale di Filippo di Majorca, sono assolutamente convergenti: di conseguenza i membri della famiglia francescana chiamata da Maria d’Enghien a Galatina intorno al 1417, dopo il rientro dalla sua esperienza napoletana, sono frati provenienti da s. Chiara, che essendo storicamente la chiesa degli Angiò e della corte, era quella da lei frequentata. Non sorprende perciò se lei abbia avuto facoltà di conoscerli ed apprezzarli personalmente. Aggiungiamo che la datazione degli affreschi si evince dalla semplice osservazione di numerosi particolari. Infatti la loro esecuzione dà per scontata la conclusione del Concilio di Costanza, l’elezione di Martino V e anche il matrimonio fra Giovanni Antonio Orsini e Anna Colonna, eventi avvenuti tutti nel 1417. Se questa comunità accoglie fra i suoi membri frati provenienti da s. Chiara, allora essi, stando sempre a quanto risulta dall’analisi degli affreschi galatinesi, erano affiliati ancora alla famiglia francescana dei Fratres Philippi de Maioricis che, nonostante non riconosciuta come Ordine, doveva aver continuato ad operare in modo sotterraneo. E’ questa la comunità di frati sotto la cui guida avviene la decorazione a fresco della nostra chiesa.

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