Avanti (o) pop! 15. Sviluppo non sostenibile

Ormai da decenni si è posto il problema dello sviluppo sostenibile.  Come si può leggere in “Sviluppo sostenibile. Riflessioni attorno ad una teoria controversa” a cura di Marino Ruzzenenti, in www.fondazionemicheletti.it, a partire da Georgescu-Roegen, che lo teorizzò nel 1971 nel suo saggio Entropy Law and the Economic Process, molti studiosi hanno affrontato il problema dell’emergenza ambientale che è strettamente legata con l’economia e con le scelte governative. Il saggio fa capire come centrale sia l’importanza dell’economia ecologica e come, per far fronte al grande problema ambientale, non sia di aiuto neppure “la critica all’economia classica e neoclassica che ha segnato l’intero Novecento e che si è proposta come alternativa di sistema al capitalismo: il marxismo e l’economia socialista”, perché anche questa fallimentare. Emblematico in questo senso, proprio il disastro di Cernobyl che, come detto sopra, ha dimostrato, nell’Unione Sovietica, che non aveva futuro il modello teorico marxista; infatti, sebbene l’industria fosse di proprietà statale, ciò non ha impedito il disastro e i danni derivanti da un cattivo sfruttamento delle risorse. Si è imposto allora un nuovo modello, chiamato “ecomarxismo”, teorizzato da James O’Connor, che ha avuto un certo seguito in Europa.  “Dunque anche per questa via si ritorna comunque alla politica come luogo privilegiato in cui forse è possibile superare i limiti di tutte le teorie economiche rispetto alle tematiche ecologiche, limiti che appaiono ancor più invalicabili quando l’economia si suppone scienza autosufficiente e si rinchiude in un orizzonte crematistico (studio della ricchezza). Da questo punto di vista si avverte allora quanto mai stonato il coro pressoché unanime che negli ultimi tempi si leva da tutte le parti (da Ovest a Est, dal Sud al Nord) ad esaltare il Mercato e le sue mirabili leggi finalmente riconosciute anche dai più riottosi. Mentre, invece, appare su questo punto significativa la riflessione del filosofo Emmanuele Severino che in diversi suoi saggi rileva come il capitalismo si starebbe avviando verso il tramonto proprio perché costretto a darsi un fine diverso dal profitto che è la sua ragion d’essere. E ciò deriva dal fatto che si sta diffondendo nel mondo la consapevolezza che la produzione capitalistica della ricchezza potrebbe portare in breve tempo alla distruzione delle condizioni della vita umana sulla terra.”

I disastri ambientali hanno posto all’attenzione dell’opinione pubblica e di conseguenza dei governi mondiali un nuovo modo di intendere le politiche industriali e hanno dimostrato la necessità di dare un corso più regolato allo sviluppo scientifico altrimenti incontrollato. Cioè, facendo una più oculata gestione dei rischi  e coinvolgendo le popolazioni nelle scelte  che hanno un più grosso impatto ambientale, per evitare che il corso di progresso intrapreso da tutte le democrazie occidentali possa portare verso ulteriori disastri, verso derive in cui la technè non sia sposata alla humanitas. “Col tempo potrete scoprire tutto quanto è dato scoprire e il vostro progresso sarà solo un allontanamento dall’umanità”, scrive Bertolt Brecht nel “Galileo”.

Chernobyl fu come un pugno nello stomaco per noi ragazzi di allora. Era l’era della glasnost di Gorbaciov e poi del golpe di Eltsin. Dopo, ci fu la grande trasformazione, o per meglio dire la polverizzazione, dell’Urss, in una miriade di stati indipendenti. Oggi, con la lunga era di Putin, non ha più senso parlare di economicismo, men che mai di socialismo. Le imprese sono in mano a privati, quasi sempre amici dello zar stesso, e in Russia trionfa un capitalismo familistico rampante e spregiudicato anche più di quello americano. Il progresso tecnologico e scientifico però ha subito un brusco rallentamento: viene incoraggiato quello spaziale, che porta grande visibilità nel mondo alla nazione russa, ma non quello interno che serve a migliorare le condizioni di vita della popolazione, che infatti si è impoverita drammaticamente.

Oggi ci siamo accorti che il modello di sviluppo che propone il mondo moderno è storto, incompleto, non più sostenibile. Le emissioni di gas serra nell’atmosfera e i cambiamenti climatici sono a dimostrarlo.  Occorre bilanciare delle politiche energetiche sull’uso di fonti rinnovabili, non possiamo restare legati esclusivamente ai combustibili fossili che continuano a inquinare. In tutti gli incontri al vertice fra gli Stati viene proclamata questa solenne verità, i vari ministri dell’ambiente si impegnano a firmare accordi comuni, ma poi i risultati concreti tardano ad arrivare. Sembra che questi convegni mondiali offrano solo la possibilità agli esperti ambientali di mettere in mostra la loro competenza, ratificata con la pubblicazione degli atti, ma azioni concrete non ne vengono esperite. Le cosiddette “buone prassi” sono buone solo sui titoli dei convegni e delle pubblicazioni scientifiche dedicate. A partire dalla famosa Conferenza di Kyoto, c’è un’ambiguità di fondo, una ambiguità non risolta, come scrive ancora Marino Ruzzenenti in “Sviluppo sostenibile”. In tutti i convegni fatti sul clima, a partire da Kyoto, “forse l’occasione più significativa per verificare l’efficacia del progetto ONU di sviluppo sostenibile, il prevalere della solidarietà intergenerazionale dei paesi ricchi a scapito di quella intragenerazionale tra ricchi e poveri è evidente laddove il protocollo conclusivo ammette la possibilità di “commercializzare” le quote di emissione oppure introduce il meccanismo della “joint implementation”, cioè il trasferimento di tecnologie nei paesi non sviluppati per conseguire abbattimenti di emissioni, come compensazione della mancata riduzione delle emissioni da parte dei paesi sviluppati. Ciò significa, in sostanza, permettere ai paesi ricchi di perpetuare il proprio ipersviluppo e di garantirlo anche alle “proprie” generazioni future, scaricando gli oneri della sostenibilità sui paesi poveri”. In questo caso, la formula sviluppo sostenibile rappresenterebbe un ossimoro inconciliabile ed anche per questo negli ultimi tempi, “ i critici dello “sviluppo sostenibile”, rilanciano il discorso sull’“ecologia dei bisogni”, in senso non mercantile, a partire dai bisogni di socialità e di rapporti umani non mediati dal valore di scambio e dalle merci, il che significa privilegiare “la dimensione contemplativa delle relazioni tra esseri umani e con la natura” per una “buona vita”, in cui l’economico torni ad essere strumentale (una sorta di “grande trasformazione” descritta da Polany, ma rovesciata). Da qui la critica radicale allo sviluppo e la ricerca di un nuovo orizzonte “oltre lo sviluppo” reale.” E si parla allora di uno sviluppo alternativo, che sappia andare oltre la fredda logica dei numeri, superare lo strapotere del Pil, cioè del benessere inteso soltanto come aumento del prodotto interno lordo e considerare lo sviluppo invece come connesso alla salute della gente, all’allungamento della vita media e insomma a tanti fattori che non sono prettamente economici. “Nell’arduo tentativo di colmare certe lacune, si stanno cimentando da anni alcuni studiosi di diversi paesi che lavorano ad un’ipotesi di radicale critica alla teoria economica dominante negli ultimi due secoli, assumendo come paradigma il patrimonio Natura per definire l’efficienza della stessa economia umana.”

Capirà il mondo che occorre correre ai ripari?  Già Einstein diceva che gli effetti distruttivi della scienza dimostrano chiaramente quanto siamo lontani dallo sfruttamento organizzato di queste scoperte per il benessere dell’umanità. Ma noi dobbiamo coltivare la speranza, quella di cui Max Born dice “c’è ancora, ma si realizzerà solo se non lasciamo nulla di intentato nella lotta contro le malattie del nostro tempo.”

Giugno 2016

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