L’excursus di Raimondi ripercorre la linea di sviluppo degli studi vaniniani dal tardo rinascimento al libertinismo e alla modernità, che, secondo la ratio del Convegno o l’intenzione del suo organizzatore, ne rappresenta l’approdo.
Nel saggio di Domenico Fazio (UniSalento), che apre le relazioni dei convegnisti, “Sessant’anni di studi su Giulio Cesare Vanini all’Università del Salento” (pp. 29-45) si pone in risalto come la Renaissance vaniniana si leghi a questa Università, alle iniziative editoriali e di ricerca di Giovanni Papuli e del suo gruppo di lavoro, un ponte fra Antonio Corsano e gli studiosi delle ultime generazioni, Raimondi e Mario Carparelli in particolare. E’ ad essi che, secondo Fazio, “si devono alcune tappe fondamentali dell’attuale fase degli studi vaniniani, la fase, cioè, del pieno riconoscimento della statura europea del pensiero e dell’opera di Giulio Cesare Vanini” (p. 41).
Il saggio di Gabriella Sava (UniSalento) “Il sonno e i sogni nel De Admirandis” (pp. 47-74) parte da una trattazione del sonno e dei sogni dall’antichità ai tempi moderni, per soffermarsi su come Vanini considerava questa materia: “un’attività legata alla qualità e alla quantità dei cibi ingeriti, e, in generale, alla digestione degli alimenti”, che è una “conferma [del]l’adesione di Vanini al naturalismo materialistico” (p. 54).
Adele Spedicati (UniSalento) affronta “Il fenomeno teratologico nell’opera di Giulio Cesare Vanini” (pp. 75-89). Un argomento, questo, fra i più ambiguamente trattati dal filosofo. L’autrice passa in rassegna tutte le obiezioni che fa il Vanini alle diverse interpretazioni del fenomeno, in rapporto alla Provvidenza divina e alla necessità della natura. La studiosa conclude che “Il fenomeno teratologico, secondo il Vanini, trova una spiegazione all’interno della natura stessa intesa come un sistema di cause efficienti indipendente da ingerenze esterne” (p. 89).
Sulla provvidenza divina nel rapporto Vanini-Aristotele discetta Ennio De Bellis (UniSalento) nella sua relazione “La riflessione di Giulio Cesare Vanini sulla trattazione aristotelica del Primo Motore” (pp. 93-103), che s’incentra su alcuni passi dell’Amphitheatrum ed ha carattere rigorosamente teoretico-teologico.
Su un argomento del De admirandis verte la relazione di Marcella Leopizzi (Università di Bari) “Il potere taumaturgico dei Re di Francia: Giulio Cesare Vanini e la ricerca della verità” (pp. 105-127). La Leopizzi parte dalla tradizione francese di attribuire al re il potere taumaturgico di guarire con un tocco i malati di scrofola, argomento che ricorre in un dialogo del De Admirandis. Anche qui vale la solita posizione di Vanini, oscillante “tra apparente ammissione del miracolo e latente insinuazione del dubbio” (p. 105). Ma in Vanini è solo uno dei tanti pretesti per mettere a confronto la credenza alla legittimità del Re e di Dio, ovvero del potere costituito e delle verità ‘accettate’, e le leggi di natura, che preludono ad “un mondo più ‘moderno’ e tollerante”.
La relazione di Simona Apollonio (UniSalento) “La messa in scena dell’Amphitheatrum aeternae providentiae” (pp. 129-153) cerca le fonti formative di Vanini, in specifico quelle relative alle conoscenze ed esperienze dirette fatte durante il soggiorno inglese (1612-1614). “E’ da presumere – dice la studiosa – che le ripercussioni del soggiorno inglese siano state di portata ben più vasta” (p. 133) e ipotizza che a Londra Vanini abbia potuto ‘conoscere’ autori e rappresentazioni del teatro inglese dell’epoca e che abbiano influito non poco su di lui. “Sussiste – afferma Apollonio – una parziale convergenza tra le fonti filosofiche dei drammaturghi inglesi e gli interessi filosofici vaniniani” (p. 139).
La relazione di Raimondi “Filosofia della libertà e libertà del filosofare in Vanini” (pp. 157-183) riprende il nocciolo della di lui vicenda filosofico-esistenziale. Il discorso ha due approcci diversi: uno storiografico e l’altro teoretico. Il verbo all’infinito “filosofare” sposta il punto di vista dalla filosofia all’agire del filosofo, il quale deve saper trovare il modo di filosofare per la libertà anche quando non c’è libertà. In questo senso la vicenda di Vanini coi sotterfugi per “filosofare” e l’aperta rivendicazione di libertà, successiva alla condanna al rogo finale, diventa esemplare. Ma la dissertazione sul confronto libero arbitrio-servo arbitrio, Erasmo-Lutero, che è fondamentale in tema di libertà, riporta il discorso nella sua dimensione teoretica.
Su libertà e false libertà del filosofo s’interroga Jean-Pierre Cavaillé (École des Hautes Études en Sciences Sociales) nella sua relazione “L’incarnazione delle false libertà: Vanini nella letteratura apologetica del Seicento” (pp. 185-197). Per Garasse, Mersenne e compagni la libertà va intesa sempre all’interno di un ordine religioso, fuori è soltanto licenza. Per essi Vanini “incarna l’esito di un uso improprio della libertà ed è percepito come il peggiore dei mostri partoriti dalla falsa libertà in tutti i campi della vita pratica e intellettuale […], nel senso sia della licenza morale che della licenza intellettuale, della libertà dell’individuo che si arroga il diritto di pensare quello che gli pare come gli pare e di passare al setaccio del dubbio e della critica le stesse verità della religione” (p. 186). La libertà per come è intesa dai libertini conduce all’ateismo. Ma la libertà proclamata da Vanini è tutta in quella frase che pronunciò mentre era tradotto al rogo: «andiamo, andiamo a morire allegramente da filosofo». Con cui Vanini – dice Cavaillé – “compiva un atto davvero rivoluzionario; rivendicava in effetti pubblicamente una vita e una morte affrancate dalla religione, nella piena adesione alla figura del filosofo” (p. 194).
“Vanini, le influenze celesti e i processi naturali” è la relazione di Didier Foucault (Université de Toulouse) (pp. 199-209). Un tema, questo, particolarmente dibattuto non sempre con esiti univoci. Lo studioso francese ritiene che in ultima analisi “[Vanini] non prende in considerazione nessun’altra influenza astrale, tranne quella che si può constatare in maniera evidente: soprattutto quella legata al Sole e alla Luna, sdegnando i pretesi effetti indotti dai pianeti o dalle stelle fisse” (p. 208).
Lorenzo Bianchi (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale), nella sua relazione “Note sulla fortuna di Vanini nel Settecento francese: da Voltaire a Naigeon” (pp. 213-248) parte dalla difesa che di Vanini fa il Bayle, secondo cui il condannato di Tolosa era stato un “ateo virtuoso” che aveva scatenato non poche polemiche, per percorrere tutto il Settecento francese alla luce dei giudizi che vari autori danno di Vanini, tra di loro diversi, da Durand a Voltaire, alle enciclopedie, a Naigeon, per scemare in un progressivo disinteresse della cultura francese nei confronti del filosofo di Taurisano.
Una prospettiva diversa avanza Miguel Benítez (Universidad de Sevilla) nella sua relazione “Vanini tra gli increduli: il trattato Sur la véritè de la religion dei Fratelli Lévesque” (pp. 249-286). Quest’opera del 1733, di carattere compilatorio, difende la religione naturale contro le religioni rivelate e spiega la categoria dell’incredulità. “Questa incredulità – precisa Benítez – non si identifica con l’ateismo, anche se taluni l’abbiano spinta sino a tale limite. […] essere ateo significa negare l’esistenza di Dio; chiunque ammetta un Dio, quale che sia, non è ateo, ma tutt’al più incredulo. […] Vanini sarebbe dunque un incredulo, niente affatto un ateo” (pp. 259-260); secondo de Lacroze, “un ateo mancato” (p. 285).
Mario Carparelli (UniSalento), nella sua relazione, “Giulio Cesare Vanini e la tradizione ermetica” (pp. 287-299), “suggeri[sce] l’ipotesi che il primo e più violento «attacco» contro l’ermetismo rinascimentale non fu, in realtà, «sferrato» da Mersenne, ma da Giulio Cesare Vanini […] prima della pubblicazione delle Quaestiones in Genesim (1623), il testo che, secondo la Yates, può essere considerato una vera e propria «summa» contro la magia rinascimentale” (p. 289), e sostiene che in definitiva l’autore delle Quaestiones si serve dell’armamentario critico-razionale di Vanini, ossia del suo «principale bersaglio polemico», per attaccare l’ermetismo rinascimentale (p. 290).
Il volume si chiude col poema “Tholosae combustum” di Antonio Sagredo, di cui null’altro si dice.
Una valutazione complessiva del Convegno alla luce del suo titolo, “Filosofia della libertà e libertà del filosofare”, sarebbe problematica, dato che la maggior parte delle relazioni vertono su altro argomento e solo marginalmente attingono il titolo scelto. E’ sui singoli interventi perciò che va visto e valutato il convegno. Ribaditi l’aristotelismo di Vanini (De Bellis), il naturalismo (Sava, Spedicati, Foucault), l’ambiguità fra affermazioni e negazioni (Spedicati, Leopizzi), il suo razionalismo radicale (Raimondi, Carparelli). Arricchita ne esce sia la conoscenza della fortuna di Vanini nel Sei-Settecento (Cavaillé, Bianchi, Benítez) e nel Novecento (Fazio) sia la ricerca delle fonti altre (Apollonio). Rispetto ai precedenti convegni, coi quali si pone in continuità, questo è più frammentato e conferma che la ricerca scientifica col lavoro sui testi e sui documenti è sempre più convincente rispetto ad ipotesi ideologiche o attualistiche variamente referenziali.
[“Presenza taurisanese” anno XXXVIII n. 2 – febbraio 2020, pp. 8-9]