Il Professore, nella sua innata garbatezza rispettava tutti, ma non rinunciava alle proprie convinzioni di “intellettuale di sinistra”, di democratico e antifascista. In particolare, nell’ambito della fede religiosa, si definiva agnostico, non accoglieva cioè posizioni precostituite. Tuttavia – è utile ribadirlo – dialogava amabilmente con qualunque interlocutore, pur mantenendo sempre fermezza argomentativa a sostegno delle proprie idee, in ogni caso sorrette da indiscussa moralità.
Nato a Pescara il 13 aprile 1923 da padre monteronese e madre abruzzese, studiò nell’università di Firenze sotto la guida di insigni docenti, quali Giuseppe De Robertis, e nel 1946 si laureò a Bari (a causa dei difficili collegamenti nel periodo postbellico) con Mario Sansone e con una tesi su Giuseppe Baretti e la sua Frusta Letteraria, il primo in quella neonata facoltà di Lettere. Tornato nella Monteroni paterna, iniziò la carriera di docente nelle scuole di Lecce, trovandosi a contatto con i circoli della cultura d’avanguardia, instaurando una sodalitas con i più impegnati e attenti intellettuali, letterati, artisti e collaborando a importanti riviste del tempo (per esempio, “Il Campo”, di cui fu pure condirettore nel 1956-61) con saggi, inchieste e racconti o dirigendole da par suo. Vincitore nel 1957 del Premio giornalistico “Salento”, dal 1960 risultava iscritto appunto all’albo dei giornalisti come pubblicista.
Lasciato l’insegnamento, volle cimentarsi pure nell’amministrazione della sua Monteroni e ne fu sindaco dall’agosto 1992 al novembre 1993, guidando una consiglio comunale “arcobaleno”, che associava cioè comunisti e missini, liberali e socialisti, democristiani e proletari. Era infatti consapevole che l’uomo di cultura non deve solo trasmettere il senso della responsabilità civica dall’hortus conclusus in cui di solito vive, piuttosto ha l’obbligo morale di porsi in discussione e di spendersi di persona nel concreto, a beneficio della propria polis, cioè della propria comunità. Così facendo politica.
Scrittore prolifico e inserito in molte antologie, ci lascia almeno 27 titoli. Si riteneva più narratore che poeta: ovviamente anche per lui la poesia nasce spontanea, schietta ed istintiva da una illumination, mentre la prosa – racconto o romanzo – necessitano di una gestazione più lunga e ordinaria, di un labor limae più attento e meditato; ed anche il modo di esprimersi e in generale la forma per conseguenza differiscono.
Sin dall’esordio engagé nel dibattito letterario meridionalista, pubblica nel 1969 Provincia difficile e nel 1973 Compare brigante, entrambe con Adda di Bari, destinandole specialmente alla scuola d’allora «impegnata in un delicato processo educativo per la formazione morale e civile dei nostri giovani»; incentrate sull’ingiustizia sociale, sulla «commozione della miseria» e su «una umanissima partecipazione», in sostanza quasi verghianamente su un «realismo provinciale», con un linguaggio già molto diretto e scorrevole.
Nel 1981 (Manduria, Lacaita) esce il suo primo testo di poesie, Segni del diluvio, dove si evidenziano delusione e pessimismo dopo le «grandi speranze» nutrite nel dopoguerra. Secondo Vittore Fiore, qui il Nostro si manifesta «poeta della sofferenza provinciale o, se si vuole, di una periferia storica». Anzi, lo stesso Bernardini dichiara che “Arduo è sognare” e denunzia la “Poesia / facile parola / per un tormento quotidiano”.
In Emblema e metafora (Lecce, Manni, 1988), seconda silloge di versi, più prorompente si dispiega una peculiarità tutta bernardiniana, la «dolente ironia» che spesso diventa autoironia, frutto ormai – nel giudizio di Donato Valli – «di un diverso tempo poetico», più interiorizzato nell’avvertimento del tempo che fugge via, e «una delle prove più convincenti dell’ultima stagione poetica italiana».
Pure con Manni (1989) Il bivio e le parole, le cui gustose e «sorprendenti prosette» per A. Lucio Giannone rappresentano «una salutare reazione di tipo ironico e umoristico alla condizione di estrema negatività espressa» in un precedente lavoro, Allegoria (semiseria) del viaggiatore e altri epiloghi (Foggia, Bastogi, 1984).
Del 1993 (Lecce, Conte) è La divisa del paziente, una serie di note autobiografiche d’ospedale, fissate durante il ricovero per l’intervento ad un occhio. Vi prevale la sarcastica constatazione che il degente, privato di ogni umana identità, si ritrova ridotto a “cosa”.
Il profumo dei gelsomini (Lecce, Argo), che viene alla luce nel 1994, si configura invece come una narrazione critica, ironica se non beffarda dell’uomo ritornato a Monteroni, in «un piccolo paese, perduto in una estrema regione sud-orientale». Qui la sua vita è solo «tessuta di meditazioni, di sentimenti, di odori più che di azioni», immersa in quell’ambiente stantio, di giorni monotoni, nella codarda arretratezza soprattutto sociale e culturale. Il volumetto di memorie si chiude con gli eloquenti severi versi – «ora che sono sindaco al mio paese» – di Tacciono gli amici poeti, di norma «straniti in cerebrali ricerche, tesi ogni giorno / a scolpire parole nel vento». In effetti, affrontare le complesse realtà quotidiane di un’amministrazione comunale non è per i letterati: assorbiti dai propri otia e non portati per simili negotia,«gli amici poeti» se ne stanno muti… commento ironico (ed autoironico) ripetuto anaforicamente nelle sette strofe, per maggiore risalto.
Nell’imminente inverno, (Manduria, Lacaita, 1995), sua «terza raccolta poetica», ricompaiono «la vecchiaia, la malattia, la morte, ma anche la memoria dell’amore […] temi forse dolenti, filtrati attraverso la scrittura», come afferma lo stesso Bernardini. I versi finali «dedicati alla mia nipotina adottiva» lasciano però intravedere uno spiraglio di speranza: «al nostro inverno / sorge un’alba e di smeraldi / ingemma questa vecchia stagione».
Del 1998 (Lecce, Conte) Parapagliapiglia, in cui «il poeta si diverte» proprio in una specie di divertissement di filastrocche rivolte ai bambini e ai vecchi… tornati bambini, servendosi a piene mani di adescanti rime, assonanze e consonanze. Altrettanto si verifica nel 2000 (Lecce, Grifo) con Stasera a cena mangerò una balena.
Alcuni anni dopo, il Nostro pubblica Nel mistero del tempo (S. Cesario di Lecce, Manni, 2005), un itinerario poetico esistenziale in tre parti che racconta e interpreta famiglia, natura, tempo ultimo d’attesa. Appartiene alla terza sezione la lirica Sulla soglia, recitata – come riferito – al momento dell’estremo saluto.
Con Manni (S. Cesario di Lecce, 2008) pure il romanzo di sapore autobiografico, ma di impostazione sognante e surrealistica, I bruchi ovvero Il ragazzo in fondo al mare.
Poi (2009), sempre con Manni, Fuga dalla notte, nella cui premessa e nell’epilogo, s’impone il saldo presupposto del narratore «che uno dei mezzi forse più nobili per sfuggire all’angoscia della fine sia la scrittura», immortale… e che rende immortali. In questo volume, ancora una volta, l’affresco autobiografico naviga tra il reale e il surreale.
Nel 2010 (Copertino, Lupo) Ed io parlo, scrivo e fumo. E, a proposito, non posso fare a meno di rammentare che, donandomene copia, nella dedica Giovanni inserì le parole «con l’invito ad una certa indulgenza»: la modestia di un Grande! Vi ritroviamo le cronache di una lunga vita sempre coerentemente vissuta. Dato il «vizio della scrittura», il filone delle memorie – ora definito inquietudini – è per lui di fondamentale importanza, con le abituali rivisitazioni umoristiche alla maniera pirandelliana.
L’anno seguente, Passaggi di stagioni lontane (Carmiano, Calcangeli, 2011) segna un ritorno alla poesia: contiene le liriche dei decenni 1940-50, rievocati anche in prosa nella nota introduttiva dello stesso salentino-abruzzese scrittore «periferico». Emblematici e certo esplicativi del suo pensiero appaiono in particolare i versi della sezione Qualcuno che forse rimandano alla frase – nella medesima nota preliminare – «Debbo convenire che Qualcuno o la Fortuna o che so io mi protesse» [nella prigionia in Germania].
I dieci racconti de Il tempo della memoria (S. Cesario di Lecce, Manni, 2012) propongono ulteriori testimonianze, ricordi e riflessioni dell’allora quasi novantenne autore. Nel penultimo si legge una bella umanissima preghiera del «vecchio», di nuovo in ospedale: “Signore, io sono sincero, voglio essere sincero: Non so se esisti, ma – se esisti – non posso pensarti che quale Dio di misericordia. E alla tua misericordia mi rivolgo: ai miei ottantanove anni siano risparmiate altre sofferenze e mortificazioni e presto mi sia concessa una morte quieta”.
Quindi, immediato corollario, Il tempo dell’attesa (S. Cesario di Lecce, Manni, 2014), dove protagonista non è una petrarchesca “beata solitudo”, ma il solito pessimismo adesso più acuito, per la inesorabile senescenza appunto in una solitudine sofferta, con le tante problematiche e malanni, dell’età e di Giovanni Bernardini: «Al vecchio non resta che vivere non con la morte (sarebbe una contraddizione), bensì col morire». Lo scrittore sogna, presenta «occasioni o situazioni», riflette, ritrae… non senza l’aiuto dell’onnipresente «diavoletto dell’ironia».
Nel 2016, in parte già pubblicati a puntate su “Presenza Taurisanese”, sono dati alle stampe (Monteroni di Lecce, Esperidi) i venti dialoghetti de Il Vecchio e l’Ombra. I due (Bernardini e il suo alter ego) disputano, con toni vivaci e sempre sull’onda di un sarcastico gioco graffiante; oggetto del discutere si ripresentano – incarnati nel solito pessimismo di fondo – i tanti temi esistenziali, la morte e l’aldilà, il rapporto scienza-fede, la vita e il suo mistero, la dignità umana, i grandi della letteratura e via discorrendo. In particolare, il Vecchio [Giovanni] dichiara apertamente di voler «rimanere uomo del dubbio cioè agnostico» che non possiede certezze «né di credente né di ateo».
Alla fine del 2016 l’ultima creatura bernardiniana, Nel buio la parola (Monteroni di Lecce, Esperidi) con le liriche del 2015-16, prezioso corrispettivo in versi dell’opera precedente, ove non manca una finale reinterpretazione dei tempi passati della «verde maturità». Chiaro il senso metaforico del titolo: la luce della Poesia nelle tenebre dell’esistenza umana contemporanea e in quella (anche fisica) del Nostro.
Nei mesi scorsi lo scrittore andava ricostruendo ulteriori tasselli allo scopo di completare il mosaico delle sue memorie – stavolta l’infanzia e l’adolescenza nella famiglia monteronese – che avrebbe intitolato La casa sepolta con riferimento appunto alla originaria casa paterna. Ma ha potuto vedere pubblicato (su “QuiSalento”) solo Remota stagione, il brano iniziale della nuova opera.
Fin qua l’inderogabile meritato tributo di riconoscenza all’illustre scomparso e un bilancio della sua produzione letteraria ancora provvisorio e solo schematico.
Mi preme, però, registrare con il giusto rilievo come Giovanni Bernardini sostenesse con il Foscolo che «l’uomo aspira all’immortalità, se non altro nel ricordo dei vivi, tanto più se è riuscito a costruire qualcosa che testimoni il suo passaggio nel mondo». Il che può e deve riferirsi naturalmente anche a Lui, alla sua prosa e alla sua poesia.
A chiusura – tratto da un mio sonetto dedicatogli nel dicembre 2016 – mi sia consentito questo lapidario (e perciò probabilmente riduttivo) riepilogo della sua opera: «La tua voce diretta ed incisiva, / ironica e irrisoria smascherando / recrimina e interpella e redarguisce, / trasmette probità, scuote ed impegna; // investiga il mistero della vita, / dà forza alla ragione e alla coscienza. / Non grida solitaria nel deserto, / si leva appassionata e trascinante»…
[“Presenza taurisanese” anno XXXVIII n. 2 – febbraio 2020, pp. 6-7]