Il cane selvatico

La solitudine di quel luogo gli aveva provocato un tremito nelle membra e misteriose paure di invisibili pericoli. Nel bosco il silenzio dell’ora notturna era veramente spaventevole. All’alba aveva sentito il grido di un gheppio sopra di sé, e si era rincuorato; poi, altri versi sconosciuti nell’aria e un muoversi e strisciare tra le foglie del sottobosco di una faina o di uno scoiattolo tra i rami degli alberi. Aveva saputo di non essere solo.

Aveva bevuto ad una cascatella che scendeva rumorosa dal monte, bagnandosi tutto il manto. Allora per la prima volta i morsi della fame si erano fatti sentire. Da nessuna parte nel bosco avrebbe trovato una ciotola piena di cibo, ma solo prede in movimento che egli avrebbe dovuto cacciare. Si era sfinito dietro un fagiano che sembrava prendersi gioco di lui, poiché ad ogni assalto del cane l’uccello spiccava piccoli voli, ma sufficienti a sventare l’attacco. Alla fine il cane aveva avuto la meglio, e aveva mangiato la carne sanguinolenta dell’uccello, badando a eliminare i numerosi pallini di piombo che avevano ferito l’animale rendendolo fin troppo vulnerabile. Ma non sempre la fortuna gli era stata così favorevole. Inutilmente aveva dato l’assalto a una volpe e a una faina, non riconoscendole come sue concorrenti, e anche un tasso era riuscito a svignarsela nel sottobosco entro una tana inaccessibile. La carogna di un capriolo l’aveva sfamato per una settimana, ma poi anche quella riserva di cibo era finita, e il cane aveva dovuto cercare un’altra preda, e poi un’altra ancora, patendo per giorni e giorni la fame, che lo rendeva leggero, inquieto sempre più selvatico.

Quella sera, prima che nuvole bianche riversassero il loro carico sugli alberi, aveva percepito un rumore di sterpi schiantati nel sottobosco, a poca distanza da lui. Un ragazzetto di circa dieci anni, con un ramo sfrondato in mano, si faceva largo tra gli arbusti, picchiandoli senza pietà. Gli ricordava la crudeltà immotivata del suo padroncino, quando lo minacciava col manico di una scopa fino a farlo ringhiare di paura, nel cortile di casa, e finiva poi col bastonarlo, durante pomeriggi lunghissimi nei quali era lasciato solo in sua balia, senza possibilità di svincolarsi dalla catena a cui era legato. Il bastone agitato nell’aria colpiva i giovani arbusti, rovi e noccioli, fino a romperne le più tenere cime, una dopo l’altra, mentre il ragazzino avanzava verso il cane senza avvedersi della sua presenza. Improvvisamente, il cane lo aveva investito con un ringhio feroce e selvatico, minacciandolo con la bianca chiostra degli orribili denti. Un tremito di terrore aveva attraversato le membra del ragazzino. Per questo il cane era stato abbandonato due mesi prima, dopo essere stato sorpreso dal padrone a ringhiare contro il suo bambino. Ma allora il cane non aveva mai dubitato di poter attaccare qualcuno, neppure quel bambino cattivo quando l’aveva ferito con l’attizzatoio del camino, facendolo zoppicare per lunghi mesi. Mai. Ora però tutti i freni inibitori erano venuti meno, e la fame rompeva ogni vincolo e spingeva a predare per avere salva la vita. Il ragazzino era immobile dinanzi al cane, e il cane già stava per spiccare un salto verso la preda, quando un colpo di fucile sparato in aria era rimbombato tutt’intorno e lo aveva messo in fuga; e nella fuga un secondo scoppio lo aveva ferito a un’anca, irrimediabilmente.

La neve piombava sul bosco ridivenuto silenzioso e buio. Il cane rivide il cortile assolato della sua casa, la ciotola sempre piena, lo sguardo felice del suo padrone; e rivide anche la punta minacciosa di un bastone, un ferro acuminato, la mano inespressiva di chi non si sarebbe più preso cura di lui. Il gelo ora mitigava persino il dolore della ferita, trattenendone il fiotto di sangue. Ma s’insinuava anche nelle membra illese e le irrigidiva lentamente. Allora fu contento di ritrovarsi per caso sotto l’ontano ormai carico di neve, nel posto in cui il padrone gli aveva ordinato di attenderlo, perché prima o poi sarebbe tornato a prenderlo, portandolo con sé. E non ci sarebbe stato più un bambino nervoso contro cui ringhiare, perché quel bambino sarebbe rimasto nel bosco, al posto suo, mentre lui sarebbe ritornato nel cortile col suo padrone.

Così, felice, chiuse gli occhi e si addormentò. La neve, poi, fece il resto.

[2001]

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