di Gianluca Virgilio
Ai piedi dell’ontano gli parve all’improvviso di risentire il suo stesso odore tra le foglie, come se il tempo non fosse passato, e la terra gli restituisse la prova ingannevole che nulla fosse accaduto realmente.
Era giunto nel luogo conosciuto, per caso, trascinando una zampa insanguinata, sfinito, dopo un lungo vagare alla ricerca di un riparo, mentre una fitta nebbia avvolgeva rupi, alberi e cespugli sulle montagne desolate. La nevicata sarebbe stata abbondante. Il cane avvertì la stretta del gelo incipiente, che sembrava trattenere e fermare tutte le cose. Rivedeva la mano del padrone, nella quale allora non aveva potuto discernere un’intenzione né un ordine, priva della gestualità consueta, che era solita renderlo triste o felice. Due mesi prima lo aveva scaricato dall’auto, abbandonandolo disteso per terra, legato come un capretto destinato al macello.
L’aveva scaricato sotto l’ontano ancora frondoso al principio di ottobre, semilegato, perché potesse liberarsi solo quando lui fosse già stato lontano con la sua auto, oltre il monte e la boscaglia. Così il cane si era sciolto troppo tardi dai legacci, ma aveva ugualmente tentato una corsa attraversi frassini e sorbi, faggi e roverelle, carpini e betulle ancora verdeggianti nel pomeriggio assolato di ottobre. Ben presto aveva perso la traccia, confuso da odori nuovi e sconosciuti di erbe mai prima annusate. Poi, sopraggiunta la notte, si era fermato sotto una rupe, sfinito per l’inutile corsa, in attesa di qualcuno che non sarebbe venuto.