di Paolo Vincenti
“Fatte ‘na pizza c’a pummarola ‘ncoppa
vedrai che il mondo poi ti sorriderà
Fatte ‘na pizza e crescerai più forte nessuno
nessuno più ti fermerà…”
(“Fatte ‘na pizza” – Pino Daniele)
“Che pizza!”. Tutto parte da questo curioso modo di dire. Mi sono chiesto da dove derivasse e sono andato a verificare su Internet. Deriva dal fatto che la pizza è spesso difficile da digerire e ciò è dovuto ad una lievitazione troppo breve oppure, più spesso, ad una maturazione insufficiente o da una scarsa qualità degli ingredienti utilizzati, almeno come scrive on line “L’Accademia dei Pizzaioli”. E dunque la pesantezza reale di questo alimento viene associata a quella metaforica di una persona tediosa, rompiballe. Ma ho detto pizza? Quella che, associata agli spaghetti e al mandolino, ci contraddistingue nel mondo, secondo il più becero e abusato stereotipo? In effetti, in Italia si producono ogni anno 2 miliardi e 350 milioni di pizze (fonte: Giovanni Quaglia, “Cinquanta e più”, rivista nazionale Confcommercio). Da prodotto italiano è diventato ormai mondiale perché in ogni nazione del mondo se ne produce. Margherita, quattro stagioni, capricciosa, primavera, ai quattro formaggi. Ogni paese personalizza la pizza secondo il gusto e le abitudini alimentari del luogo e accanto alla pizza salata da qualche anno è apparsa anche la pizza dolce, ricoperta di marmellata o di cioccolata e nocciole. Ma a mio avviso, quest’ultima è proprio na fetenzia.