Se non si può nutrire alcun dubbio sul fatto che i libri abbiano bisogno di ciascuno di noi, non se ne può nutrire nemmeno sul fatto che i libri abbiano bisogno di una civiltà, tanto quanto una civiltà ha bisogno dei libri. Si tratta di una reciprocità necessaria, senza la quale inevitabilmente si verifica il crollo delle idee strutturali. La funzione di ogni libro resta attiva in quanto e fin quando esiste una civiltà che si confronta con i suoi significati, acquisendoli, confermandoli, contestandoli, smentendoli, rimodulandoli, rielaborandoli, rifondandoli. Ogni interpretazione di un libro è, sostanzialmente, una rigenerazione dei suoi significati e quindi della sua esistenza.
Fino ad un certo punto non è mai accaduto che i libri non abbiano trovato la civiltà di cui avevano bisogno. Anzi, per secoli, hanno rappresentato la realtà e l’immaginario di ogni civiltà e si sono costituiti come la sintesi delle sue idee. In fondo erano l’unico strumento con il quale risultava possibile formulare e trasmettere sapere, in modo intenzionale, sistematico, organizzato. La conoscenza formalizzata era affidata esclusivamente alla relazione fra le persone e i libri. Di questa condizione ognuno era perfettamente consapevole. Poi, ad un certo punto, nella ricerca della civiltà di cui avevano bisogno, si sono trovati di fronte ad un universo nuovo e ad una grandiosa presunzione, ad un’arroganza di cui non avevano mai fatto esperienza. Da un certo punto in poi si è pensato e si è detto che potevano anche essere sostituiti con altri strumenti più efficaci, più funzionali, più potenti, dalla capacità e rapidità di evoluzione impressionanti. Si è visto che dallo spazio di un banalissimo schermo, quegli strumenti potevano rappresentare la sconfinata conoscenza che avevano dentro, e non c’era neppure bisogno di sfogliare, neanche di custodire, neanche di comprare. Bastava soltanto un clic e il sapere appariva, magicamente. Poi un altro clic e il sapere scompariva, magicamente, lasciando il suo posto ad un altro sapere, oppure a niente, ad uno schermo oscurato. In un breve torno di tempo hanno scoperto che esiste una Rete immensa in cui si raduna – o s’impiglia? – tutto l’umano sapere.
Ecco, è con questa arroganza e con questa favolosa credenza che i libri si sono ritrovati a fare i conti. Per cui hanno difficoltà a soddisfare il proprio bisogno. In ogni situazione vengono messi a confronto con quella Rete che riesce a passare rapidamente da una sfera del sapere ad un’altra, da un argomento ad un altro, senza nessuna difficoltà, senza nessun tentennamento, senza nessuna mediazione. Ma, soprattutto, quella Rete promette di far realizzare agli uomini l’antichissimo sogno di una conoscenza multiforme, molteplice, totale, indiscutibile, assoluta.
I libri hanno bisogno di una civiltà, ma la civiltà cui apparteniamo ha sempre meno disponibilità e sempre meno tempo e meno spazio da prestare alle storie che, per poter esistere, devono necessariamente raccontare, alle filosofie che hanno l’ansia di proporre, alle scienze che devono inevitabilmente spiegare. Avvertono il proprio deperimento di senso; qualche volta subiscono il sospetto di una certa loro inutilità.
Intanto i contesti e le occasioni di concentrazione, di riflessione, si restringono sempre di più.
Però, i libri hanno – ancora- qualcosa che la Rete non ha, che forse non potrà avere mai. I libri hanno la dimensione della profondità. Prendono colui che legge e lo portano a scandagliare. Rivelano particolari. Ma, come si sa, nella conoscenza delle cose spesso sono proprio i particolari a stringere il senso essenziale: quello che si annoda indissolubilmente alla memoria, alla singolarità dell’essere, all’irripetibilità dell’umano.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 9 febbraio 2020]