Per Giovanni Bernardini, ogni libro era sempre l’ultimo. Così diceva, ad ogni libro. Poi, dopo un anno dall’ultimo, ne usciva un altro che era sempre l’ultimo.
Forse lo tirava fuori dai cassetti. Forse lo tirava fuori dai pensieri delle notti. Forse lo tirava fuori dalle sue mattine con gli sguardi scagliati nella lontananza del tempo, indietro, sul fondo dei ricordi che s’ingrandivano, si spandevano.
Ogni libro era sempre l’ultimo. Perché un grande scrittore in un libro ci mette sempre tutto, tutti i sogni possibili, tutte le speranze, le angosce, i sentimenti, i desideri, i sogni, il taedium vitae, la spossatezza, tutte le sensazioni, tutte le emozioni, tutte le felicità, tutti i dolori, le illusioni, le delusioni, le sconfitte, le vittorie. Il proprio senso della vita e della morte.
Giovanni Bernardini è un grande scrittore. Per questo pensava che ogni libro fosse l’ultimo. Per questo in ogni libro ci metteva sempre tutto.
Ogni libro è attraversato da una ferita, a volte invisibile, sotterranea. Quella di un padre che scompare a quarantasette anni appena.
Alla scrittura, Giovanni ha chiesto la motivazione, o la giustificazione, di quella ferita. Nessuno può sapere se risposte ne abbia avute. Nessuno può sapere se ogni parola non sia stata, invece, un’altra domanda. Forse è stato così. Perché la scrittura si conclude nel momento esatto in cui riesce a dare risposte. Giovanni Bernardini non ha mai concluso. Ha sempre continuato a confrontarsi con se stesso, di placare un poco il dolore di quella ferita.
Fra la scrittura e la vita, per Giovanni non c’è stata differenza. Gli hanno dato, l’una e l’altra, lo stesso stupore, gli stessi incantamenti. Sono state la stessa passione. Sono state la stessa meravigliosa e misera illusione: com’è sempre ogni arte. Sono state concretezza destinata all’inevitabile svaporazione.
Quanto più passavano gli anni e passavano i libri, più la scrittura di Giovanni si stratificava di concretezza e sfumature grigiochiare. Rassomigliava sempre di più ai suoi gesti, agli sguardi opachi, ai trasalimenti, ai soprassalti, alla sua memoria.
Alla sua terra. Al suo Salento. Alla sua provincia difficile.
Prima di cominciare a scrivere, ho dato uno sguardo allo scaffale con tutti ( tutti) i suoi libri. Hanno quasi tutti una dedica. “Provincia difficile”, no.
Quando incontrai “Provincia difficile” era d’estate e avevo quindici anni. Lo lessi dalle tre alle sei di un pomeriggio di calura astiosa. E’ stato il primo libro che ho letto sul Salento, del Salento. Poi l’ho riletto, più volte. L’appassionamento per questa terra proviene da lì, da quel pomeriggio.
Vorrei ripetere che Giovanni Bernardini è un grande scrittore. Non solo per l’equilibrio della sua forma, non solo per la consistenza della sostanza. E’ un grande scrittore perché ha creduto nella scrittura come testimonianza di se stesso, della propria esperienza d’uomo che attraversa le stagioni che gli sono state date in dono.
Giovanni ha raccontato le sue stagioni. La sua primavera, poi l’estate e l’autunno e l’inverno. Questo è stato l’impegno.
L’ultimo narratore, disse Rina Durante dentro quel pomeriggio uggioso di novembre.
Uno di quelli che resteranno. Perché questa terra gli deve riconoscenza, perché a questa terra Giovanni ha dato tutto se stesso, tutto il suo pensiero, il suo lavoro, la sua passione.
(Vorrei dire a Giovanni che ho scritto queste righe in fretta. Che non le ho rilette. Se questa mattina dovrà rimproverarmi con l’autorevolezza del Maestro che è stato e che è, avrà ragione.)
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì, 14 gennaio 2020]