Cena in giardino

Il giardino di allora era diverso rispetto all’attuale, ma non quanto la casa, completamente ricostruita in base a criteri moderni. Nel giardino il vialetto centrale era stato allargato; nella zona a sinistra i vecchi alberi da frutta erano stati sostituiti da alberelli nuovi; a destra invece l’agrumeto era rimasto quasi intatto, perfino con il loto più che centenario e un limone spaccato dalle intemperie che continuava a dare i frutti. Però era stata eliminata la neviera, del tutto inutile, e, all’angolo opposto, costruito un ripostiglio per attrezzi e legna. A sinistra abbattuti la conigliera, il pollaio, la legnera e una stanza-dispensa a cui era annesso un primordiale gabinetto con tazza a manovella per la svuotatura e un alto vaso di creta pieno d’acqua da utilizzare per la totale pulizia. Anche il pergolato su paletti di legno era stato sostituito da paletti di ferro e spostato sopra il viale. Nei pressi della vecchia legnaia, una colonna era avvolta da una pianta di gelsomini emananti acuto profumo, che ora giungeva dalla parte opposta, dal muro di cinta, dove i gelsomini si abbarbicavano ad un telaio metallico. Con la colonna era scomparsa pure la casetta sottostante, destinata di quando in quando a nido per una coppia di colombi che prima o poi finivano inevitabilmente in brodo.

Al padre piaceva parlare di quel giardino e soprattutto di quella abitazione che non esisteva più. Per lui era un tentativo di riappropriarsi del passato, d’un tempo in cui era stato felice. Felice forse è parola troppo grossa, meglio dire lieto, spensierato. Si rendeva conto che quel tornare indietro nella sua vita era un’illusione, il conforto d’una mezzora, niente di più, col rischio di annoiare gli eventuali ascoltatori. Egli però correva ai ripari ad ogni sintomo d’impazienza.

Così quella sera a cena. C’erano Mario con Caterina, Antonio, la badante Ileana, Fiorella con la figlia quattordicenne Sonia. Erano in sette: per entrarci tutti avevano dovuto trasportare fuori un tavolo allungabile.

Mario, come sempre in queste occasioni, aveva fatto ridere i commensali con le sue battute, la mimica e la voce contraffatta. Fiorella aveva portato tre bottiglie di rosso frizzante che trasmetteva una certa euforia.

Il padre ne aveva assaggiato mezzo bicchiere e si sentiva in vena di parlare. Lo spunto glielo dette Antonio. Fiorella gli aveva chiesto: “Tu hai scritto un romanzo, uno solo. Come mai non sei andato avanti?”

“Un romanzo per ragazzi, in una prestigiosa  collana d’una Casa editrice specializzata. Ebbe molto successo”.

“E allora?”
“Sai, l’ispirazione mi venne dall’antica casa che era qui una volta, che io feci in tempo a conoscere e frequentare quando erano vive le prozie, cioè le zie di mio padre. In seguito fui attratto da altri interessi”.

“Ma cosa aveva di speciale quella casa per ispirarti?”

“Non è facile spiegare se non la si è conosciuta. Mi limiterò a dire che vi si respirava un’atmosfera misteriosa, quasi vi si nascondessero presenze invisibili. Su questo credo sia meglio passare la parola a mio padre, che ne ha avuto più lunga esperienza”.

“Quella casa” confermò il vecchio “chi può dimenticarla? Venirci costituiva per me un’avventura. Erano i primi anni del 1930, frequentavo le elementari. Vivevamo nelle Marche, colpite allora da due grossi disastri: il ‘nevone’ -così lo definivano-, una nevicata alta oltre un metro, e il terremoto, violentissimo, una mattina. Io, in piedi sul mio lettino, balzai nel letto matrimoniale, istintivamente, chissà, a cercarvi rifugio. Mio padre si stava vestendo, mia madre accorse dalla cucina. Rimanemmo tutt’e tre abbracciati, senza una parola, non so quanti minuti, finché la terra cessò di tremare. Ignoro quanti danni fece, certo molti e gravi. Per diverse notti andammo a dormire al Casermaggio militare, comandato da un collega di mio padre, un ufficiale mutilato della 1^ guerra mondiale. Occupavamo una camera a pianterreno, da dove era possibile uscire subito all’aperto in caso di pericolo. Anche quella la vissi come avventura…”

“Sì” interruppe Mario. “Ma cosa c’entra con l’antica casa?”

“C’entra, c’entra. Per ricostruire un po’ il mio spirito d’allora arricchito dall’immaginazione, che nei ragazzi è preponderante. Poi -lasciatemelo confessare- affidarmi ai ricordi m’aiuta a vivere”.

“D’accordo. Però pure da giovane hai avuto non dico il vizio, la tendenza a divagare”.

“Ammetto. Significa che forse avrei avuto la stoffa dello scrittore. Del resto, come fanno i narratori a riempire pagine e pagine, se non entrando in dettagli, in divagazioni non necessarie, in allusioni a episodi precedenti, ecc.ecc.? Di recente ho letto un’intervista a Camilleri. Fa lo stesso, nella conversazione si comporta come scrivesse, trascina l’ascoltatore in un labirinto”.

“Vostro padre ha ragione” intervenne Fiorella. “Lasciatelo parlare a ruota libera. A me, per esempio, piace moltissimo ascoltarlo. E sapete che lo ascolto da anni”.

“Grazie. L’avventura l’assorbivo anche dai libri che mi regalavano. Mio padre mi comprava settimanalmente il Corriere dei piccoli, edito dal Corriere della Sera, illustrato con didascalie in rima. Ci trovavo tanti personaggi: il signor Bonaventura, che immancabilmente si meritava un milione alla faccia del maligno Barbariccia; con loro l’elegante Cecè: tutti frutto della penna di Sergio Tòfano, che si firmava Sto ed era bravissimo attore di teatro e cinema. Poi il sor Pampurio: arcicontento/ cambia ancora appartamento. Il dottor Alambicchi aveva inventato una vernice che rendeva invisibili. Petronilla e Arcibaldo mi pare non andassero troppo d’accordo. In un’isola semideserta vivevano Capitan Cocoricò con la moglie Tordella e i gemelli terribili Bibì e Bibò. Ne combinavano di tutti i colori e finivano abbondantemente sculacciati. Su quel giornale si poteva leggere un romanzo a puntate, Gli eredi del Circo Alicante di Giana Anguissola”.

“Come fai a ricordare perfino certi titoli?” chiese Caterina.

“Beh, il cervello è l’unica parte rimasta indenne nel mio organismo. E la memoria l’ho sempre esercitata, come suggeriva Cicerone, anche in rapporto al mio mestiere d’insegnante. Dunque, riprendendo, erano i libri che più mi tenevano avvinto. Mio nonno materno mi spedì Cuore. Lo leggevo con passione, specie i racconti mensili: Il tamburino sardo, La piccola vedetta lombarda, Sangue romagnoloDagli Appennini alle Ande. Mi ero ammalato, di morbillo o influenza. Il nostro dottor Fuà aveva raccomandato cautela. Mia madre mi rimproverava di stare a lungo con le braccia di fuori a reggere i libri. Allora ficcavo la testa sotto le coperte e lì, con quella scarsa luce che filtrava, proseguivo la lettura”.

A questo punto il vecchio guardò Sonia: “Ti stai annoiando alle mie chiacchiere?”
“No,” rispose pronta la ragazza “al contrario, mi affascinano”.

“Via, ti affascinano. Non esagerare”.

“Non esagero, mi creda, professore. Noi giovani siamo abituati a Internet, ai cellulari più sofisticati. Servono, ormai non se ne può fare a meno. Però, a un certo momento, ti accorgi che tutta quella virtualità contiene qualcosa di falso, di freddo; tolte alcune eccezioni, come dire, insomma manca di anima”.

“Brava, alla tua età sai fare osservazioni sensate, quasi avessi molti più anni”.

“Merito della mamma”.

“Benissimo, una lode in più a tua madre. Certo, il nostro era un mondo diverso. Oggi tutto è cambiato, è così nel corso della storia. E’ cambiato in fretta, forse troppo in fretta, senza dare il tempo di stabilire un ragionevole equilibrio tra progresso tecno-scientifico e taluni insostituibili valori”.

“Già” interloquì Antonio. “Quali sarebbero questi valori insostituibili?”

“Figlio mio, la domanda è un po’ provocatoria, nello stesso tempo comprensibile. Sono convinto che la risposta susciterebbe lunga discussione e finiremmo fuori del seminato, peggio di quanto sto facendo io con i troppi ricordi”.

“Allora mettiamo da parte ogni possibile discussione, prosegui”.

“Dicevo che ammiravo molto i giovanissimi eroi di De Amicis, tuttavia mi era simpatico pure quel monellaccio di Pinocchio e mi divertivano le spacconate del Barone di Munchhausen, anche questo avuto da nonno Enrico. Più grandicello, mio padre cominciò a comprarmi i libri di Giulio Verne, il Robinson Crusoe di Defoe, quelli di Emilio Salgari:

I cannibali dell’Oceano PacificoI pirati della MalesiaLe tigri di Mompracem e tutta la serie di Sandokan, che diventò il mio preferito. M’interessava anche la mitologia dal giorno in cui mi fu portato un libro dal titolo Al tempo dei tempi. In seguito acquistavo i fascicoli di Buffalo Bill. Accadeva di quando in quando che mia madre si mettesse a cantare Laggiù nell’Arizona,/ terra di sogni e di chimere… Poco appropriatamente quella canzone si mescolava, nel mio immaginario, alle galoppate attraverso le immense praterie del West. Vedevo fughe e attacchi di pellirosse, i Sioux, i Navajos, gli Apaches. I miei genitori leggevano in prevalenza romanzi gialli della collana mondadoriana. Sfogliandoli scoprii che spesso, in appendice, contenevano un racconto di Edgar Allan Poe. Frequentavo già il Ginnasio ed ero in grado di leggerli ricavandone nuove sensazioni: dal mistero all’orrore, al punto che, svegliandomi la notte nell’oscurità silenziosa della mia cameretta, ogni fruscio, ogni rosichio di tarli o altro minimo rumore sembrava preludere all’apparizione di qualcuno di quegli esseri singolari usciti dalla penna dello scrittore americano. Brividi di paura mi percorrevano la schiena, tuttavia non rinunciavo mai a quella lettura quando nel libro poliziesco trovavo un nuovo racconto di Poe. Ero all’Università allorché lessi America amara di Cecchi. Questi, a Baltimora, dinanzi alla tomba del ‘grandissimo isterico’, sembra allinearsi alla sua scrittura: la vicina frenata dei carrozzoni tranviari provoca la conseguenza che ‘le ossa di Poe saltellano dentro la fossa e il teschio batte i denti’ “.

Ileana, la badante, stava aiutando a cambiare i piatti. Rivolgendosi a lei, il vecchio la pregò di versargli un secondo bicchiere di vino frizzante, aggiungendo: “Storie di questo genere le avete anche voi in Romania, i vampiri, Nosferatu… “

“Sì, professore, si tratta di leggende della Transilvania. Io sono della Moldavia, abito però in Bucovina perché mio marito è di lì e lì lavora. Non so come sia nata e si sia diffusa quella leggenda di Dracula (nella nostra lingua significa ‘diavolo’), un morto che esce dalla tomba per succhiare il sangue ai vivi. Io sono andata a scuola, ho imparato invece che Vlad Dracula, voivoda della Valacchia nel 1400, era un buon capo, assai coraggioso in battaglia. Ci salvò dall’invasione turca. E’ vero, ordinava d’impalare i prigionieri. Lo faceva perché i Turchi condannavano allo stesso supplizio i cristiani”.

“Da tale crudeltà, in qualche misura giustificabile,” commentò Antonio “probabilmente nacque la leggenda. La fantasia popolare tende presto a creare figure di eroi, di santi o viceversa di mostri. Poi colgo un’analogia fra il sangue e il palo”.

“Cosa intendi?” chiese Mario.

“La sete di sangue del personaggio trasformato in vampiro poteva essere placata solo da una morte definitiva conficcandogli un palo, simile a quello degli impalati, nel centro del cuore”.

“Oh!” ironizzò Mario. “Come al solito, tu sai tutto”.

“Macché, è soltanto un’ipotesi”.

“Da verificare” disse il padre. “Intanto proseguo il racconto”.

“Ti ascoltiamo” i presenti in coro.

“Stavo accennando all’effetto che esercitava in me Poe. Vengo al resto. A luglio-agosto mia madre ed io ci recavamo al mare in Abruzzo. A settembre mio padre prendeva la licenza e tutti insieme si veniva quaggiù. Per me cominciava una nuova avventura. Il treno, prima d’arrivare a destinazione, sostava a Brindisi quindici minuti. In stazione trovavamo le cugine, le quali ci consegnavano un pacco, di generi alimentari, da portare alle sorelle di mio padre. Una di queste cugine, Emma, aveva speciali capacità medianiche. Raccontavano che faceva muovere un blocco di marmo semplicemente poggiandoci sopra le mani; che in casa sua apparivano strane scritte sulle volte e sulle pareti o misteriosi bigliettini. Ci fu finanche un minaccioso avvertimento per il dottorino, che si mostrava incredulo. Era il giovane fratello medico, che una sera, mentre si coricava, ricevette da mano invisibile un bello schiaffo in faccia”.

“Tu prestavi fede a quelle fandonie?” chiese più d’una voce.

“Ero un ragazzino. Cosa potevo contrapporre? E poi anche zia Concetta, quella che ci serviva a cena, era medium ed ho assistito personalmente ad alcuni fenomeni. Alla fine del viaggio c’erano sempre le stesse, zia Emilia e zia Concetta, ad attenderci con la carrozza. Il cocchiere si chiamava Gaetanino e sua moglie era detta appunto ‘la Rosina delle carrozze’. Morto lui, lo sostituì il figlio Albino. Una volta, sulla Serra, dove inizia la discesa verso Valle della Cupa, fummo investiti da pioggia torrenziale, tuoni e fulmini che squarciavano l’oscurità. Il cavallo s’imbizzarrì impennandosi, poi lanciandosi al galoppo, finché Albino, tirando redini e freni, quindi saltando agilissimo a terra non riuscì a fermarlo e acquietarlo.

‘Ci ha salvati Sant’Antonio da Padova’ mormorava spaventatissima zia Emilia. Lì vicino, nella roccia, si apre una nicchia dedicata al Santo. La tradizione vuole che, in tempi passati, fosse stata rubata dalla chiesa matrice la statua d’argento del Santo con il Bambino in braccio. Senonché, giunti alla Serra, i furfanti avrebbero abbandonato la statua miracolosamente appesantita e portato via solo il Bambino. La statua fu recuperata, il Bambino rifatto grazie alle offerte dei fedeli e sulla Serra aperta una nicchia in onore del Santo, protettore del paese”.

“Questa è una storia credibile” commentò Antonio. “Al di là del miracolo, si vede bene quanto pesa la statua allorché la portano in processione durante la festa grande d’agosto”.

“Nel cortile di casa entravamo in carrozza. Il portone, antichissimo e malridotto, restava aperto notte e giorno. A cercare di chiuderlo si correva il pericolo cadesse a pezzi. Né si temevano furti. A parte il Sant’Antonio d’argento, era un paese agricolo, tranquillo, di gente povera, contadini, braccianti, artigiani. Le mie zie non godevano neanche  d’una pensioncina, campavano di cucito più qualche aiuto di mio padre. Le chiamavano rispettosamente ‘le signorine della piazza’. Sulla soglia ci aspettavano zia Angelica e zia Colomba, che io da piccolo -non so perché- chiamavo Bimba e così continuai a chiamarla. Lei era quella addetta alla cucina. I suoi capelli odoravano di fumo. Zia Angelica aveva viso e mani bellissime. Era la ricamatrice per eccellenza e in quel lavoro si consumò la vista. Di statura era la più bassa, minuta e fragile. Ci facevano gran festa quando entravamo, fra abbracci, ondeggiare di lumi a petrolio e ombre. La casa aveva muri massicci e volte alte a stella. Ne subivo immediatamente la suggestione, anche per le cose straordinarie che vi accadevano, raccontate dalle zie con assoluta convinzione e ascoltate con un certo scetticismo dai miei genitori”.

“Intuisco che i tuoi genitori, i miei nonni, avessero più buon senso” fece Antonio. “Però alcune di quelle cose le ricordo e suggestionavano pure me bambino”.

“Allora racconta un po’ tu quello che ricordi meglio”.

“Innanzi tutto m’impressionava che le zie vestissero sempre di nero. La loro madre, mia

bisnonna, era morta da non so quanti anni mentre loro continuavano a osservare il lutto. Nei muri massicci si contavano numerosi ripostigli usati per lo più a riporvi alimentari, ma c’erano anche stipi abbastanza grandi pieni d’abiti quasi tutti neri. Le zie avevano l’abitudine di recitare ogni sera il De profundis davanti a un tavolino sul quale erano collocate le foto dei familiari scomparsi, vegliati da un’immaginetta di Sant’Antonio. A loro dire, una sera l’immaginetta, poggiata a un vasetto di fiori, si mosse più vicina alle foto a dimostrare la protezione di quei defunti. Le zie non erano bigotte, ma animate da una solida fede. Secondo me, deve essersi trattato di suggestione collettiva”.

“Oppure” ipotizzò il padre “di un caso in cui sono entrate in funzione le doti paranormali di zia Concetta. Quelle che cercarono di utilizzare per scopi meno spirituali”.

“Quali scopi?” domandò Caterina che, entrata da poco nella famiglia, era la meno informata.

“Come accadeva quasi per ogni vecchia casa” rispose il padre, “anche per la nostra correva la diceria d’un tesoro nascosto. Dove? Si pensò quindi di evocare i morti per un’indicazione. Cominciarono così le sedute spiritiche, con la partecipazione, poco convinta, di mio padre e quella delle tre sorelle. Zia Angelica aveva rifiutato. A me, molto incuriosito, fu vietato di avvicinarmi alla stanza dove si chiudevano quasi al buio a volte a lungo. Ignoro perciò come si svolgessero tali sedute, ma so che sempre risultavano infruttuose. Da parte mia insistevo per non essere escluso. Finalmente una sera mio padre acconsentì a fare una prova con me, per gioco, senza ritirarci nella solita stanza. Rimanemmo in sala da pranzo, prendendo da un angolo un tavolino a tre pedi. Ci mettemmo lì intorno poggiando le mani secondo il rito, ma senza spegnere la luce. Mia madre, assolutamente incredula, si affacciò dalla soglia della sua camera tenendo una pantofola in mano. Era morto in quei giorni un personaggio importante del regime fascista. ‘Perché non chiamate lui?’ consigliò ridendo e lanciando la pantofola contro il tavolino. Restammo stupefatti. Il tavolino aveva preso a oscillare. Mio padre credette fossi io a muoverlo. Io negai, anzi tolsi le mani, feci un passo indietro. Gli altri mi imitarono. Il tavolino continuò a oscillare con piccoli spostamenti in avanti. La scena durò qualche minuto nel silenzio generale. Mio padre concluse che le qualità paranormali di zia Concetta avevano ricevuto piena conferma. Difatti sere dopo lei si isolò al buio servendosi d’una sedia per posarvi le mani. Aveva lasciato l’uscio aperto, sicché, accostandoci, udimmo sotto quella sedia un gorgoglio simile al bollire d’una pentola. Alla fine, da rinnovate sedute spiritiche, emerse che il tesoro sarebbe venuto alla luce solo demolendo la casa. Figuratevi un po’! Le zie non l’avrebbero permesso per tutto l’oro del mondo. Si sarebbero tenuta la loro dignitosa povertà. Dopo quel responso le sedute cessarono, anche per un secondo motivo. Il confessore proibì a zia Concetta di evocare i morti, rispettando l’insegnamento della Chiesa”.

“Già” fece Mario,”ma poi la casa venne demolita”.

“Fu possibile solo dopo la scomparsa dell’ultima, zia Emilia, e dopo che l’ingegnere progettista sostenne che una ristrutturazione non avrebbe consentito quell’ammodernamento e quelle comodità da noi desiderate”.

“Il capomastro” disse Mario “mi chiamò sulle terrazze (avevo otto anni) e m’invitò a guardare lì dall’alto, per l’ultima volta, la vecchia casa. La mattina seguente sarebbero giunte le ruspe a svolgere il loro compito”.

“Insomma” domandò Caterina “fu scoperto il tesoro?”

“Naturalmente no. C’era un sottoscala murato dove, a crederci, avrebbe potuto essere occultato qualcosa. In famiglia si affermava che vi era stato nascosto il cadavere d’un soldato, ucciso in data e circostanza imprecisabili. Aveva la spada a fianco. Ed io, per qualche notte, soffrii l’incubo che me la puntasse contro il petto”.

“Posso esprimere un parere, professore?” chiese Ileana timidamente e, al segno d’assenso, aggiunse: “A me quella vecchia casa richiama un tantino i film dell’orrore”.

“Non direi proprio. Tolti alcuni episodi, in fondo innocui, vi si viveva abbastanza serenamente. Quelle grosse mura e quelle volte alte difendevano, almeno in parte, sia dal caldo sia dal freddo. A me piaceva, d’inverno, stare seduto intorno al braciere d’ottone collocato al centro d’una pedana di legno oppure ficcarmi nel letto scaldato dal cosiddetto ‘prete’ o ‘monaca’. E fare il bagno in cucina dentro il semicupio presso il grande  camino acceso. Il semicupio era una vasca di lamiera, dove potevi stare comodamente seduto poggiando le spalle come in poltrona. Dopo cena le zie si trattenevano a leggere o meglio una di loro, quasi sempre zia Concetta, leggeva a voce alta mentre le altre ascoltavano. I libri erano a dispense, poi rilegate insieme, e i titoli questi: Quo vadis?,L’ebreo errante, I miserabili, I lavoratori del mare, I tre moschettieriLe mille e una notte in edizione purgata, ecc. Leggevano o ascoltavano fino a quando la testa non si piegava dal sonno. Infine andavano a letto, tutt’e quattro in unica stanza”.

Disse Antonio: “Quella camera la ricordo bene. Quasi buia anche di giorno, prendeva luce unicamente da un finestrino molto alto. Sul comò, dentro uno scarabattolo, stava quel Bambinello in cartapesta, che tu, papà, facesti restaurare. Portava addosso molti ex voto di nessun valore. Pure in questo caso le zie avevano pronta una storia per loro miracolosa. Fra gli ex voto splendeva un gioiello, un brillante o cosa simile. Una domestica tentò di rubarlo, ma le sue mani rimasero appiccicate alla statua senza poterle staccare finché non urlò e a chi accorse confessò il tentativo sacrilego”.

“Sì, una casa piena di storie” disse il vecchio,” di abiti neri e di cose strane, come quel catenaccio d’una porta che si metteva a vibrare annunciando prossima una disgrazia. Sempre stando alla testimonianza delle zie. Tuttavia era pure una casa dove io ragazzo assaporavo ghiottonerie genuine: fichi mandorlati cotti al forno, uva lunga bianca sotto spirito, vini conservati in bottiglie polverose di anni dopo anni, patate zuccherine fritte, le rape… oh, quelle rape che piacevano tanto a vostra madre quando fidanzata veniva a cena qui e poi da sposati. Quelle rape, cucinate sotto il grande camino a legna, conservavano odore di fumo, come i capelli della zia Bimba. Proprio per quell’odore la mamma le gustava di più… “.

Il vecchio centellinò il terzo bicchiere di rosso sbirciando la sedia vuota accanto a lui. Non più vuota, vi sedeva sua moglie, muta. Gli altri non se n’erano accorti. Gli sorrideva, giovane.

“Com’è possibile che io sia tanto vecchio?” si interrogava lui. “Forse sto sognando. Il vino di Fiorella m’ha fatto addormentare”.

Tese la mano verso la moglie, lei restava immobile, solo gli sorrideva.

“Vogliamo andare in fondo al giardino, fra gli alberi, dove da fidanzati ci baciavamo nelle sere tenere di luna o di stelle?”

Rispose con un sorriso di consenso, si alzò.

“Arriviamo fino al solito punto del muretto, sul quale potremo sederci, come un tempo” propose lui.

“Papà, dove vai?” gridarono i figli.

“Prendo un po’ d’aria. Sapete, quel vino… “.

“Puoi cadere”.

“Ho il bastone. Sono un tantino brillo, le gambe però reggono”.

“Veniamo a darti un appoggio”.

“No, no, lasciatemi solo. E poi non sono solo”.

“Che ti salta in mente? Con chi sei?”

“Con me stesso. Mi fa bene”.

La moglie s’era fermata, poi si mosse precedendolo.

“Non camminare così in fretta, non ce la faccio a seguirti. Tu sei giovane, lo vedi quanto io sono vecchio”.

Lei rallentò, si volse a sorridergli ancora una volta, fermandosi al muro di cinta.

La raggiunse, la fissò intensamente, chiese:” Ma dove vai ora?”

Finalmente, dopo un ultimo sorriso, aprì bocca:” Adesso torno là da dove mi ha fatto uscire la tua immaginazione”.

settembre-ottobre 2014

[“Il Titano”. Supplemento economico de “Il Galatino” n. 12 del 24 giugno 2016, pp. 28-31]

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