Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXI

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Guerra e pace. La pace di cui godiamo nell’Occidente opulento ha un prezzo altissimo: la guerra oltrefrontiera subita dai popoli miserabili che cercano come possono di resisterci. Qualche bara che di tanto in tanto torna a casa con tutti gli onori a bordo di un aereo militare è troppo poco per farci preoccupare. Anche l’antica Roma si è sentita al sicuro per molti secoli e neanche si curava di innalzare delle mura difensive quando le legioni conquistavano i popoli.

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Campagna salentina. Vito è un trattorista e nei suoi settantacinque anni forse avrà arato tanta terra quanta ve n’è nelle terre emerse. Gran parte della sua vita è in sella a un trattore ch’egli tratta come fosse un cavallo. E’ richiesto da molti per i suoi servizi. Abbiamo discorso sullo stato delle campagne salentine. Molte, mi dice dispiaciuto, versano in stato di abbandono, come mai prima d’ora. La gente non ne vuol sapere di lavorare in campagna. Proferisce andare al mare ed investire lì i suoi soldi.

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Un sogno. Lascio l’albergo in compagnia di non so chi e, seguendo il corso del fiume, mi avvio per una strada piena di esercizi commerciali e di alti alberi. Mi ritrovo nei pressi di un deposito di vecchi libri, lì stoccati in attesa del macero. Qualcuno mi dice che posso prendere i libri che voglio senza alcuna spesa, e allora mi do da fare per trovare qualche buon libro. Invano. Non trovo nulla di buono, solo best seller, poesie e romanzi  che non mi dicono nulla. Mi accorgo così di aver fatto tardi. Sono atteso in albergo per la partenza, ma mi riesce difficile ritrovare la strada, mi perdo nelle vie della città che sembrano tutte uguali. Alla fine ritrovo  il corso del fiume e dunque spero di orientarmi. Mi sveglio.

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Il rapporto tra politica e cultura in Antonio La Penna, I proemi: il valore e il senso della storiografia, in Sallustio e la “rivoluzione romana”, Bruno Mondadori, Milano 2017, p. 31: “… il problema del valore autonomo della cultura, il quale trova facilmente il suo sbocco nella salvezza interiore, si fa acuto allorché una classe che abbia il dominio politico ed elabori da se stessa la cultura, sia costretta dalla crisi a rinunziare alla direzione politica. Il problema non può porsi, quando gli intellettuali non possono aspirare alla direzione politica: non può porsi né al tempo di Omero né al tempo di Plauto; può porsi quando la democrazia greca o la repubblica romana hanno portato gli intellettuali a partecipare entro una certa misura al potere politico: se la direzione politica entra in crisi, si apre la via della salvezza interiore: così è avvenuto nella Grecia del IV sec. a. C., così nell’era augustea, così è nato il neoplatonismo nel nostro Quattrocento.”

Questo è dunque il rapporto tra la politica e la cultura: la crisi dell’una genera l’autonomia dell’altra, la rinunzia alla politica incapace di risolvere i problemi comuni produce la ricerca individuale interiore svincolata da ogni rapporto con la politica. La cultura si autonomizza, diventa riflessione sul destino incerto dell’uomo, ricerca di una palingenesi individuale e sociale (le due cose vanno sempre insieme).

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Rinuncia. Nel saggio citato nel pensiero precedente, p, 47, Antonio La Penna ricostruisce il passaggio dalla politica alla cultura, nel mondo antico, attraverso “la via alla rinuncia”: “… è pure evidente che la filosofia platonica ha aperto la via alla rinuncia, che alla rinuncia anzi arriva come all’ultimo sicuro rimedio: il filosofo, quando la follia e la bestialità saranno scatenate nella polis, quando tutto sarà corrotto, sì che sia diventato impossibile difendere la giustizia e sia aperta solo la possibilità di allearsi con i ribaldi per l’iniquità, si ripara dalla tempesta dietro il muricciolo della filosofia…”.

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Luca Goldoni. Leggo qualche pagina di Luca Goldoni, Vai tranquillo, Rizzoli, Milano 1987. La sua scrittura mi ha fatto venire in mente le chiacchiere degli impiegati che nelle sere di primavera passeggiano lungo il Sentierone di Bergamo o a quelli che sostano in Pzza. S. Oronzo, all’ombra del Sedile, a Lecce.

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Caso e volontà. Scrive Giacomo Casanova, Storia della mia vita II, Mondadori, Milano 1999 (IV ed.), p. 316: “Tutto avviene per caso e noi ci ritroviamo ad essere responsabili di fatti che non abbiamo contribuito a realizzare. Gli avvenimenti più importanti della nostra vita sono indipendenti dalla nostra volontà. Siamo solo atomi pensanti che vanno dove li spinge il vento.”

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Lu curciulu. A passeggio con un amico per una strada alberata di Galatina, vedo sul marciapiede un passerotto ancora incapace di volare, appena caduto dal nido: “Guarda, nu curciulu!”, esclama Antonio, utilizzando, per designare un passerotto, un nome dialettale ch’io non conoscevo. Ora, curciulu e il diminutivo (-ulus è il suffisso latino del diminutivo) di lu curciu (genere maschile) che, nel dialetto salentino indica l’organo sessuale femminile, detto anche volgarmente la passera, al femminile appunto. Ho detto queste cose ad Antonio e lui mi ha risposto che in curciulu non v’è nessuna allusione sessuale. D’accordo. Ma intanto io ho appreso donde deriva il termine curciu e in cosa consista la metafora del passero.

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Snobismo e letteratura. Scrive Marcel Proust nel Jean Santeuil, trad. Salvatore Santorelli, Theoria, Rimini 2018, p. 186: “… il romanziere snob diventerà anche romanziere degli snob.”. A p. 356 definisce “… lo snobismo … l’ammirazione di ciò che negli altri è indipendente dalla loro personalità…”. Nel contesto in cui se ne parla, lo snobismo è una delle tre componenti del formalismo. Le altre due sono la maldicenza e l’etichetta.

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Che cos’è la letteratura. Ce lo spiega bene Marcel Proust, Jean Santeuil, cit., pp. 273-74: “Mentre ascoltava, Jean percepiva confusamente che ciò che è reale in letteratura è il risultato di un lavoro solo spirituale, per quanto l’occasione possa essere materiale (una passeggiata, una notte d’amore, un dramma sociale), una specie di scoperta che lo spirito opera nell’ordine spirituale o sentimentale, per cui il valore della letteratura non si trova affatto nella materia che si svolge davanti allo scrittore ma nella natura del lavoro che egli compie su di essa.”

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Che cos’è il Rococò. Ecco il ritratto della “deliziosa signora Baret” scritto da Giacomo Casanova, Storia della mia vita II, cit., p. 391: “Poche volte mi è capitato di vedere donne belle come lei e nessuna così bianca. I suoi incantevoli seni, il suo ventre liscio, le sue anche rotonde che s’innalzavano sui fianchi a concludere una curva che terminava all’estremità delle cosce, una curva così perfetta che nessun geometra avrebbe potuto disegnarne una simile, offrivano ai miei avidi occhi quella bellezza che i filosofi non sono mai riusciti a definire.”

Sarebbe sbagliato considerare questo ritratto come un esempio d’arte neoclassica. La bellezza neoclassica infatti rimanda sempre ad un ideale sovrasensibile e non prevede alcun piacere corporeo, mentre invece “la deliziosa signora Baret” suscita solo un piacere sensuale. Ecco come continua il racconto casanoviano: “Smettevo di contemplarla solo quando l’impossibilità di soddisfare ulteriormente i desideri che mi ispirava mi rendeva infelice. La peluria dell’altare su cui la mia fiamma si era sollevata, bruciando, fino al cielo era di riccioletti d’oro finissimo e pallido. Inutilmente vi passavo le dita per disfarli: i riccioli prendeva solo una forma diversa. La Baret partecipava con molta calma alla mia ebbrezza e ai miei trasporti, abbandonandosi a Venere solo quando sentiva in tumulto tutta la sua deliziosa persona.”

L’esaltazione del piacere dei sensi, altro che l’ideale. Credo che non vi sia nulla di più rococò dei “riccioletti d’oro” della signora Baret.

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Il pensiero. Scrive Giacomo Casanova, Storia della mia vita II, cit., p. 10: “Credo, per altro, che la maggior parte degli uomini muoia senza mai aver esercitato il pensiero”.

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I sogni. Scrive Marcel Proust, Jean Santeuil, cit., p. 513: “… i nostri sogni non hanno la forma delle intenzioni, ma la forma che un dio dona loro.”

Noi non siamo responsabili dei nostri sogni, che nulla hanno a che fare con la volontà. I sogni scaturiscono da un quid imponderabile, un dio, dice Proust, che dà loro la forma, al di là di ogni nostra intenzione.

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I migranti e la diseguaglianza tra gli uomini. Ne “La Repubblica” del 19 giugno 2018, p. 33, leggo Massimo Riva, I migranti e la lotta di classe: “Non è certo un caso che i governi più oltranzisti verso i migranti adottino un linguaggio e politiche dalla sempre più evidente connotazione fascista. Dietro tutto questo, infatti, si nasconde una vecchia conoscenza della Storia: la lotta di classe. Nel senso specifico, stavolta, di utilizzo dei cittadini più esposti come scudi umani per una strategia mirata a evitare che le classi dominanti siano costrette a rinunciare a posizioni di rendita – nella divisione interna e internazionale del lavoro – che si vorrebbero scolpite nel bronzo. Indicare nel migrante il nemico assoluto è funzionale al mascheramento delle crescenti diseguaglianze domestiche.”

Insomma, ecco il racconto col quale la nostra classe dirigente prende in giro la gente: il nemico è il migrante, che vi infastidisce davanti al supermercato o per strada mentre siete a passeggio; e vi impoverisce perché siete voi a pagare la sua permanenza in Italia. Prendetevela con lui e mentre noi continuiamo i nostri affari e aumentiamo la nostra ricchezza sfruttando il lavoro dei regolari, voi sgobbate e vi distraete dando addosso al migrante. C’è poco da dire: al fondo della questione sociale e politica, v’è sempre il problema della diseguaglianza, che il potente di turno cerca di camuffare con un racconto falso.

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False credenze. Richard J. Bernstein, La profezia di Hannah Arendt, “La Repubblica” del 25 giugno 2018, p. 25, cita la Arendt di Verità e politica (1967): “ ‘Il risultato di una coerente e totale sostituzione di menzogne alla verità  non è che ora le menzogne saranno accettate come verità e che la verità sarà denigrata come menzogna, ma che il senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo – e la categoria di verità versus falsità è tra i mezzi mentali che servono a tale fine – viene distrutto’. Le possibilità di mentire diventano illimitate e spesso incontrano scarsa resistenza. Molti progressisti restano sconcertati dall’indifferenza del pubblico di fronte alle bugie mascherate in base alla verifica dei fatti. Ma Arendt aveva capito come funziona davvero la propaganda. Le masse ‘si lasciano convincere non dai fatti, neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza del sistema che promette di abbracciarle come una sua parte’. Gli individui che si sentono negletti e dimenticati anelano a una narrazione – anche fittizia – che dia un senso all’ansia che provano e prometta una sorta di redenzione. I leader autoritari traggono enormi vantaggi sfruttando queste ansie e inventando una storia a cui la gente vuole credere. Una storia inventata che promette di risolvere i problemi di ciascuno ha molta più presa rispetto ai fatti e alle tesi ‘razionali’.”

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