Il Mezzogiorno è intrappolato da un circolo virtuoso di un meccanismo di causazione circolare cumulativa. A partire dal 2007-2008, a seguito dello scoppio della prima crisi (la c.d. crisi dei muti subprime), la crisi si è propagata dagli Stati Uniti al Vecchio continente.
A partire dal 2009, la recessione arriva in Europa. A partire dal 2010, si avvia una stagione di intensa recessione. La crisi economica arriva ovviamente anche in Italia. In Italia si manifesta come caduta del tasso di crescita, accentuando i divari regionali. I divari regionali aumentano in quegli anni. Si attivano per conseguenza meccanismi di causazione circolare cumulativa, che implicano un susseguirsi di eventi di segno negativo, con una spirale virtuosa di caduta della domanda interna e conseguente caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro. Si tratta di quello che viene definita la legge di Kaldor-Veerdoorn, ovvero di un meccanismo per il quale al ridursi della domanda si riduce la dimensione media di impresa.
Su fonte OCSE – ultima rilevazione nel 2013 – al ridursi della dimensione d’impresa si riducono i salari e la produttività del lavoro. Crescono anche i divari regionali, con l’accentuarsi delle divergenze regionali, fra Nord e Sud del Paese.
Aumenta la disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno, attestandosi in alcune aree del Paese intorno al 60% e stando alla media nazionale intorno al 40%. Aumentano conseguentemente le migrazioni intellettuali e la sottoccupazione intellettuale, ovvero una condizione per la quale moltissimi nostri giovani sono in una condizione nella quale lavorano con produttività nulla in imprese nelle quali svolgono attività con produttività del lavoro nulla. Si tratta di un processo che parte dagli anni settanta, con l’avvio del ciclo di lotte operaie al quale le imprese italiane reagiscono attraverso strategie di divide et impera. Si avvia una fase nella quale le imprese del Nord, attraverso processi di delocalizzazione, spostano attività produttive in opifici di piccole dimensioni per evitare di generare conflitto all’interno della fabbrica.
Occorre trovare una quantità sufficiente di risorse per finanziare un programma di massiccio intervento pubblico in economia finalizzato a far crescere la produttività del lavoro.
Nel settore manifatturiero, considerato un motore di crescita economica, si stabilisce una relazione empiricamente verificata fra dinamica dell’output e tasso di crescita della produttività del lavoro. Si è verificato empiricamente che un punto percentuale del prodotto genera un incremento pari ad 0,5 della produttività. La seconda relazione è imputabile alle seguenti ragioni:
1) la presenza di economie di scala e di processi di apprendimento individuale e collettivo;
2) l’importanza del processo di specializzazione e di interazione tra imprese, in centri nei quali un congruo numero di imprese si avvale di centri di ricerca nei quali si producono innovazioni;
3) l’endogeneità del progresso tecnico, incorporato nel capitale. Inoltre, la divisione del lavoro ha un impatto positivo su know-how e skills dei lavoratori, incentiva l’innovazione tecnologica e il cambiamento della struttura settoriale di un’economia.
La scadenza dei titoli del debito pubblico, con anticipazione delle cedole in un triennio, consentirebbe di recuperare risorse per avviare un programma di rilancio delle attività produttive nel Mezzogiorno, concentrando l’attenzione su alcuni particolari centri di produzione di innovazioni localizzate nelle aree di Napoli e Bari.
Nelle condizioni date, un programma di riforme strutturali, intese nel senso di maggiore spesa pubblica in conto capitale, consentirebbe di far crescere l’economia meridionale per dare maggiore impulso allo sviluppo economico delle aree periferiche del Mezzogiorno.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 31 gennaio 2020]