di Antonio Errico
Adesso Daniele Del Giudice ha settant’anni. Forse non sa nemmeno chi sia, forse di sé, della sua vita, non ricorda più nulla. Oppure forse sì, ricorda tutto. Ma non sa dire che cosa ricorda, oppure la memoria gli è assolutamente indifferente.
Vive in una casa di cura a Venezia, assediato dall’Alzheimer. Lo racconta Ernesto Franco in due belle e tristi pagine sul “Robinson” di “Repubblica”. Scrive che “vive in un corpo inospitale ma resistente”. Da cinque anni percepisce il vitalizio di 24.000 euro all’anno della legge Bacchelli.
Quando uscì Lo stadio di Wimbledon era il 1983, e Daniele aveva trentaquattro anni.
Poi vennero gli altri libri: altri sei, credo. Il secondo fu Atlante occidentale, che finisce con questo dialogo: “Credevo che non sarei mai arrivato in tempo”. “C’è ancora qualche minuto”. “Ho sentito la radio”. Anche per te ci sono novità”. “E’ una giornata di molte novità, per me e per te”. “Bene”. “E adesso?”. “Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova”. “E questa?”. “Questa è finita”. “Finita finita?”. “Finita finita”. “La scriverà qualcuno?”. “Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”.
Queste ultime parole del romanzo smentiscono molte considerazioni e convinzioni. Per esempio quella, sintetizzata da Gabriel Garcia Marquez, secondo la quale la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per poterla raccontare.