Di mestiere faccio il linguista 23. Le parole della violenza

Voglio saperne di più, cerco in rete, trovo. Più o meno si tratta di questo. Una famiglia, marito, moglie e figlio minorenne, da vari mesi ha messo sotto tiro non una persona ma gli abitanti di un’intera strada, via Rambaldi a Ferrara. Condotte moleste che si manifestano con offese ripetute, ingiurie accompagnate da gesti sessuali, maltrattamenti di animali. E poi disturbo della quiete pubblica, rumori e urla, radio accesa per ore con musica ad altissimo volume, con la radio collocata all’interno di un contenitore metallico per amplificare i decibel, rendendo la vita insopportabile all’intero vicinato. E ancora frasi sconclusionate, offensive, brutali, minacce di morte: «Di qui non passi, verrà il momento in cui non passerai più» e «chiama tuo nonno finché sei in tempo…ti ammazzerò».

I vessati si ribellano, denunziano, depositano un esposto in procura. Dopo mesi di verifiche e accertamenti da parte di carabinieri, polizia, polizia municipale, la procura chiude l’indagine e formula l’atto d’accusa: «stalking di quartiere». Neologismo linguistico, credo anche concetto nuovo dal punto di vista giuridico, gli avvocati mi aiutino. Non posso prevedere se nel codice penale entrerà un nuovo specifico reato. Mi chiedo con quali parole verrà indicato, se entrerà. Faccio una semplice ricerca in rete. La parola stalking ricorre circa 257.000 volte nei siti italiani, stalker vi ricorre di più, 1.030.000 volte. Dunque sono parole diffuse nella nostra lingua, verosimilmente ben note a una buona percentuale, forse alla maggioranza, degli italiani.

Ciononostante faccio una modesta proposta operativa. Usiamo un lessico trasparente per tutti, invece delle parole inglesi indichiamo i corrispettivi lessicali della nostra lingua, diamo al reato e a chi lo commette nomi italiani: persecuzione e persecutore sono efficaci (come mi suggerisce Nando Boero, che spesso scrive sul nostro giornale). Tutti capiscono persecuzione, rivolta a una singola persona o un intero quartiere, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo attuata. La parola ha più valore, fa comprendere appieno la brutalità del reato e la bestialità del persecutore che commette il crimine.

2. bullobullismo. Eccone i significati: bullo ‘giovane prepotente e spavaldo; teppista’; bullismo ‘comportamento di chi cerca di imporsi con atteggiamenti prevaricatori o di sopraffazione’.

Queste due parole non sono inglesi, rispetto al caso precedente la situazione è diversa per quanto riguarda la forma. Ma vi si avvicina per il significato, anche questa coppia richiama comportamenti aggressivi e violenti, certo non esprime positività. Sorge naturale la domanda. Come è possibile che i protagonisti di atti di bullismo spesso mettano spontaneamente in rete video che ritraggono le loro gesta? Non dovrebbero, semmai, vergognarsene, perché l’esibizione?

Chi ha un carattere forte, capace di imporre il proprio potere e di dominare nelle relazioni interpersonali, si colloca in una posizione di superiorità rispetto ai compagni del proprio gruppo e agli altri studenti della scuola. La rete amplifica questa condizione, estende la fama del bullo ben oltre l’ambiente scolastico, ne fa un personaggio vincente. Inversione dei valori. Esibizionismo allo stato puro.

L’uso asfissiante e pervasivo della rete domina le nostre vite. Umberto Eco fece notare che i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar o all’osteria dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. Tutti parlano di tutto, sentenziano la verità. Che è solo dichiarata, quasi mai argomentata o provata. Si spiega così il successo straordinario di twitter, piattaforma che fornisce agli utenti una pagina personale aggiornabile tramite messaggi di testo con lunghezza massima di 140 caratteri. Tutto condensato in un cinguettio, questa sì che è filosofia, altro che Aristotele o Kant che impegnarono l’intera vita per scrivere libri!

Ma c’è di più, non è solo questione di superficialità. È inarrestabile l’abitudine di mettere in rete sé stessi, in continuazione. Pensieri o riflessioni di una qualche importanza, pochissimi. Un po’ più frequenti dichiarazioni personali, che riguardano la propria vita e che non dovrebbero interessare nessuno: «ho sentito una bella canzone», «ho fatto una passeggiata», fino a «ho mangiato un panino» o «mi sono lavato i denti».  Soprattutto foto, con variazione maniacale,  in un continuo bisogno di attrarre l’attenzione altrui: in posa atletica, in posa riflessiva, in posa provocante, in posa ammiccante, con pochi vestiti. Il fenomeno non riguarda solo i più giovani, i cosiddetti nativi digitali, attraversa le generazioni e le classi sociali. Esibizionismo allo stato puro.

Mi ha colpito un fatto recente, ne hanno parlato i giornali ai primi di dicembre. A Bologna,  una ragazza di nome Jenni Galloni, 25 anni, incinta di 4 mesi, muore in circostanze ancora da chiarire. La ragazza era di Bari, ma risiedeva da anni a Bologna e così, a quanto pare, sua madre. Dopo la morte della figlia, la madre posta sul profilo Facebook di Jenni la foto del cadavere (un corpo freddo, senza più vita, non composto, esibito con indosso solo gli indumenti intimi, il ventre appena rigonfio, un’immagine angosciante) accompagnata da parole terribili. La madre definisce «gente di merda» gli amici della figlia morta, aggiungendo: «ora non la potete più toccare con le vostre sporche mani, con le vostre false parole, con i vostri plagi…non la potete più invitare a far festa ai rave».

Nessuno può giudicare il gesto di una madre affranta dal dolore, non è questo il punto. Ma una barriera è stata infranta, un’altra frontiera è stata superata, il dolore si sfoga in una piazza digitale, una madre affida alla rete il rancore per le persone che ritiene moralmente responsabili della morte della figlia e elabora sui social il proprio lutto.

Esiste una bussola che possa orientare i nostri comportamenti in una società così frammentata? Nessuno vuole arrestare il progresso, la rete esiste. Ma bisognerà pure trovare delle regole. Abbiamo strumenti – Facebook, i social network – che permettono di rendere pubblica qualsiasi cosa, dalla più bella alla più atroce, di divulgare senza alcun limite fatti un tempo confinati nella sfera della propria persona, della cerchia parentale o amicale, della piccola comunità.

Non invoco interventi legislativi. Invoco di tornare a chiamare le cose con il loro nome. Lo stalking è persecuzione, il bullismo è prevaricazione e non c’è niente di cui vantarsi. I fatti personali sono fatti personali e tali debbono restare.

Atteniamoci a queste regole, rispettiamo la lingua e i comportamenti che questa suggerisce.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 11 dicembre 2016, p. 10]

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