di Rosario Coluccia
Anche questa settimana traggo spunto da fatti di cronaca. Mi servono per discutere delle parole che usiamo correntemente; e per riflettere sulle implicazioni collegate agli usi della lingua, parole e comportamenti vanno insieme.
1: stalker, stalking. Pochi giorni fa, il 1° dicembre, ero in macchina: ascoltavo la radio un po’ distrattamente, guidavo e seguivo il flusso dei miei pensieri. All’improvviso qualcosa attrae la mia attenzione. Un po’ confusamente, capto: «Per la prima volta … a Ferrara … stalking di quartiere». Ho perso il comunicato intero e quindi la notizia resta per me indecifrabile. Né ho mai sentito l’espressione «stalking di quartiere», non capisco bene cosa significhi. Appena a casa consulto il vocabolario, ecco la definizione di stalking: ‘azione di chi molesta ossessivamente una persona con pedinamenti, appostamenti, telefonate o intrusioni nella vita privata’. Qualche rigo sopra c’è anche stalker: ‘individuo affetto da un disturbo della personalità che lo spinge a perseguitare ossessivamente un’altra persona con minacce, pedinamenti, molestie e attenzioni indesiderate’ .
L’uso di questi termini (come di altre forme inglesi) provoca a volte reazioni, lo vedo dalle lettere che ricevo: ad alcuni appaiono “fastidiosi”, troppi gli anglicismi inutili in ambito giuridico, economico, tecnico, politico, “insopportabili” nella lingua di tutti i giorni. Vorremmo che le parole risultassero comprensibili a tutti, addetti ai lavori e singoli cittadini. Inoltre nella notizia che ho ascoltato per radio è una novità il riferimento al quartiere, non più ad una singola persona (come invece indica il vocabolario).