L’epos salentino della Contestazione. I fiori di Althusser di Daniele Capone

Preliminarmente occorre dire che trattandosi di un’opera di narrativa, dunque d’intrattenimento, va letta per il piacere della lettura, che ti trasporta, bella, spedita e godibile. Il resto è di risulta, l’interesse può variare, come sempre accade, da lettore a lettore. I personaggi principali sono due: il primo è la generazione di studenti entro le finite temporali del cosiddetto periodo della contestazione; il secondo è uno di essi in particolare, l’io narrante della cornice. Ma la priorità può essere rovesciata.

L’attenzione nostra è al protagonista corale piuttosto che al protagonista singolo, Michele Falconeri, che con la sua vicenda esistenziale tutti gli altri in un certo senso riassume, a parte la malinconica ed enigmatica vicenda sentimentale che dà un senso alla cornice.

E’ il Bildungsroman di un’intera generazione; un affresco dove tutto si tiene, dall’episodio scolastico al grande evento pubblico, dalla cronaca famigliare e paesana al grande dibattito culturale e politico. I personaggi si muovono sulla scena con estrema disinvoltura e comunicano col loro linguaggio giovanile senza mediazioni etiche o estetiche. L’azione non è volta ad un traguardo, come in genere nel romanzo che ha una storia che volge alla fine, né è guidata dall’autore. Scorre lenta nel tempo. Il tempo è il protagonista occulto. Noi eravamo così, sembra voglia dire Capone, e non eravamo né contenti né scontenti di esserlo, nessuno voleva essere altro da sé. Nessuno “si sarebbe cambiato con nessuno…sebbene ciascuno…avrebbe voluto avere qualcosa d’un altro, o un qualcosa d’indeterminato che nessuno mostrava di avere”.

Scuola, università, musica, sport, azione cattolica, politica, costume sono gli ingredienti della vicenda corale di questi studenti dell’estrema periferia salentina; e soprattutto sesso, variamente declinato, presente ossessivamente negli umori e nella comunicazione, oltre che negli aspetti fattuali, negli innamoramenti tipici dell’età.

Così la contestazione giovanile, sullo sfondo, è vissuta con disincanto e ironia, con l’animo acquietato di chi è conscio di essere stato più che di avere fatto, di aver partecipato senza fanatismo disperante e perciò senza necessità di cercare motivi consolatori. Un solo motivo sembra particolarmente sensibile e insistito, neppure tanto ideologico, non in quel tempo, almeno: è il dispiacere per l’abusivismo selvaggio delle marine, che Michele denuncia più volte con forza e con rabbia.

La cornice vede un anziano scrittore che torna nel Salento per finire di scrivere un suo romanzo su Tancredi d’Altavilla, conte di Lecce. Ma ben presto è preso dai ricordi; e questi costituiscono il racconto della stagione che l’autore chiama età sonora, dove lo svolgersi quotidiano della vita si associa ai tanti motivi musicali di quegli anni, che scandiscono il succedersi degli episodi.

Lo scenario si anima di giovani piccoloborghesi, ragazzi e ragazze, con interessi tipici dell’età e della loro condizione di studenti, liceali prima, universitari poi. Giovani che vivono con spensieratezza la loro esistenza, tra paese di residenza e capoluogo sede delle scuole superiori e dell’università, tra esami, burle, feste di compleanno, di maturità, di matricola, corteggiamenti, amori. Una compagnia dove “Ciascuno viveva lo spirito dei tempi e assecondava le cose che vanno dove vogliono andare”. Giovani lontani dallo stereotipo accreditato dalla pubblicistica di quegli anni vivono gli eventi con distacco, quasi con noia, alcuni con fastidio. Sono anni dominati dall’ideologia marxista-leninista e dei filosofi collegati, Louis Althusser in particolare, che entra nel titolo del romanzo e fa una piccola involontaria “comparsa” nel plot come le rapide apparizioni di Hitchcock nei suoi film. Ma per quei giovani i fatti che accadono, alcuni gravissimi, come le uccisioni di Martin Luther King, di Che Guevara, di Bob Kennedy, la guerra in Wietnam, la bomba di Piazza Fontana, il golpe Borghese, l’uccisione di Pasolini, per i quali in quegli anni e nei successivi tanto reo tempo volse, restano sostanzialmente sullo sfondo.

E’ una lettura, quella del romanzo di Capone, che restituisce alla realtà delle cose una nudità forse un po’ troppo dissacrante. “I pomeriggi con lei fornivano più ideologia del Pour Marx di quell’Althusser là e del suo comunismo da sogno. La vera rivoluzione l’avevano fatta lui e l’Elisa, col loro essere liberi”. Per quei giovani gli amorazzi, le frivolezze, gli esami all’Università, le canzoni e i tanti piccoli interessi di vita quotidiana sembrano prevalere sui grandi problemi della politica e della società, che pure in qualche modo li intrigano.

Eppure i giovani di quella generazione volevano cambiare il mondo, erano iperideologizzati e consideravano tutto in funzione politica e ciò che non entrava in quell’ambito erano fisime di borghesi e qualunquisti o servi dei padroni, come allora si diceva. Non che non ce ne fossero di giovani politicizzati al massimo, ma ce n’erano altri, la gran parte, che si differenziavano o che erano lontani dall’avere interessi politici o avevano la testa occupata da altri pensieri. “La pensavano diversamente – dice l’autore – sognavano diversamente” e qualche anno dopo “le loro vite sarebbero state una diversa dall’altra” quando “ormai tutti si sentivano irrimediabilmente coglioni”. Ma anche quelli che sembravano più sensibili e più coinvolti dai fatti politici li vivevano con molte contraddizioni, non vedendo chiaro in tante situazioni. Come Michele, che “si sentiva molto comunista, provava simpatia per il coraggio dei Vietcong, ma sotto sotto sperava che in Vietnam gli americani non perdessero”. Come Giuseppe, che aveva le più salde convinzioni sul fronte rivoluzionario, che però “non [gli] impedirono di aggregarsi alla gita di fine maggio con quelli della parrocchia e di farsi confondere un po’ dalla voce di Nicola di Bari”. Come tutti, che “amavano le canzoni che venivano dagli USA, ma …odiavano gli Stati Uniti”.

“Il fatto era – dice l’autore – che non avevano una chiara collocazione politica, che non sapevano neppure loro da che parte stare, che erano ‘intellettuali’ senza formazione di Partito, piccoli borghesi provinciali fuori dai grandi processi storici, troppo sensibili alle mode, al sentimentalismo di donnette”. Non sorprende perciò che uno di essi, Michele Falconeri, conclude con una riflessione cinicamente ossimorica, sollecitatagli da Pasolini: “Tutto sommato il mondo stava peggiorando in meglio”.

Una lettura minimalista? Forse, ma è innegabile che quegli anni furono anche questo: incertezze e contraddizioni. Altrove si espressero in altre forme e diedero vita a ben altre realtà. Da quel mondo così magmatico vennero fuori il terrorismo, i gruppi armati, le brigate rosse e le brigate nere, i rapimenti e le uccisioni, che caratterizzarono una stagione diversamente “sonora”.

[“Presenza taurisanese” anno XXXVIII n. 1 – gennaio 2019, p. 12]

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