Quella notte eravamo una ventina di ragazzi intorno al fuoco, girava una canna e qualcuno aveva ripreso a suonare la chitarra. Giuliano era morto da tre giorni, lo avevamo accompagnato al cimitero il giorno prima, e nessuno e niente ce lo avrebbe più restituito. Eravamo ancora un po’ giù di corda, e molti dei nostri sguardi si perdevano dentro le fiamme del fuoco che avevamo acceso nel mezzo di una radura poco distante dalla tenda, circondandolo di terra e pietre.
All’improvviso sentimmo il rombo del KTM di Gianpiero che annunciava una sua visita. Malgrado ci trattasse senza darci troppa confidenza, il suo arrivo e la sua presenza erano sempre graditi. Gianpiero spuntò tra gli alberi, passò piano con la moto davanti a noi, salutò con un cenno del capo e proseguì senza fermarsi, continuando la sua gimcana nella pineta. Ci chiedemmo dove stesse andando, perché non si fosse fermato, ma nessuno ebbe la prontezza di spirito di chiederlo a lui. Andava così piano, che credemmo volesse farsi seguire nella pineta, per chissà quale scopo. E noi lo seguimmo. Alcuni coprirono accuratamente la brace con terra, finché il fuoco non fu del tutto spento. Poi gli andammo dietro, seguendo la luce posteriore rossa e il fascio della luce anteriore della moto che zigzagava tra gli alberi. Ci fece fare un lungo tratto a piedi nel folto della pineta. Camminavamo a tentoni, poiché non avevamo portato con noi alcuna lampada, e rischiavamo perciò di sbattere la faccia contro un tronco resinoso. La luce della luna e delle stelle non penetrava la coltre di aghi di pino che si stendeva sopra di noi e l’unico nostro punto di riferimento erano le luci dei fari sempre più lontani. Poi quelle luci si spensero. Ma non saremmo più tornati indietro, perché sapevamo che Gianpiero non avrebbe fatto ancora molta strada in quella direzione. Difatti, si era diretto verso la rupe che sovrasta le case di Lido Conchiglie, e la rupe era ormai vicina.
Sul limitare della pineta, quando ci dividevano da Gianpiero solo alcuni cespugli di rovo, lo vedemmo intento ad accendere un fuoco con pochi rami e sterpi secchi. Aveva lasciato la moto lì vicino, appoggiata ad un albero, senza fermarla sul cavalletto. Decidemmo di appiattarci e di spiare le sue mosse prima di rivelargli la nostra presenza.
Se ne stava lì, nell’incavo della rupe sporgente sulla baia di Gallipoli, come un uccello notturno nel nido, incurante della notte che lo sovrastava col suo coperchio stellato, di tanto in tanto riattizzando con un rametto il piccolo fuoco che aveva acceso davanti a sé. Il suo sguardo sembrava perso nelle scintille che la brezza marina levava in alto, mandandole a spegnersi più lontano, nel buio. Era immobile, seduto per terra con le gambe incrociate, e il capo reclino: sembrava un guru indiano in meditazione o un mago intento ad evocare gli spiriti dal nulla della notte. Non so perché, ma molti di noi, forse tutti, credevano che pensasse a Giuliano, sebbene non fosse suo intimo amico, a quella morte così insensata, alla sua assenza. Ma questo ce lo confessammo solo in seguito.
Dopo qualche minuto, Giampiero si mosse: tirò fuori dalla tasca cartine e tabacco, mescolò il tabacco con l’erba, arrotolò il filtro e ne fece una canna lunga e ben fatta, come quelle che sapeva fare lui, e la accese. A quel punto, noi volevano uscire allo scoperto, pensando che Gianpiero si fosse fatto seguire fin lì per invitarci a fumare con lui, perché, come ho detto, era generoso, e certamente avrebbe diviso l’erba con noi. Ma non avevamo neppure finito di formulare dentro di noi questo proposito, che fiamme si levarono alte alle nostre spalle, tutt’intorno, come per impedirci ogni via di fuga. E veramente ogni via di fuga era impedita, dal momento che davanti a noi la rupe era troppo alta per consentire la discesa dall’altra parte, verso le case di Lido Conchiglie.
Qualche maligno ebbe poi la spudoratezza di dire che quel fuoco lo avevamo appiccato noi per negligenza o addirittura di proposito, per teppismo, ma questo non è vero, perché noi non eravamo teppisti. Forse fu l’istinto di sopravvivenza che in quell’occasione ci salvò tutti. Urla di terrore si levarono subito in mezzo a noi, e contemporaneamente ciascuno vide un varco, l’unico rimasto tra le fiamme, e di lì passò per miracolo, senza farsi male. Anche Gianpiero era stato avvertito del pericolo dalle nostre urla, ma si attardava dietro le fiamme e sembrava non aver compreso la sorte che l’attendeva se non si fosse sbrigato a seguire gli altri. Già il varco era stato chiuso dalle fiamme, e nessuna via era più aperta; noi tutti disperavamo della sua salvezza, quando ci sembrò di vedere tra gli alberi che bruciavano, delinearsi una figura – molti miei amici giurerebbero ancor oggi che fosse la sagoma di Giuliano – lambita e percorsa da fiamme che si levavano in alto fino a coprire il cielo stellato, e contemporaneamente udimmo un rombo, il rombo del KTM di Gianpiero che dava con la mano forti accelerate. Fu un attimo: vedemmo Gianpiero in piedi sui pedali della moto saltare tra gli alberi in fiamme, evitando per un soffio di finire contro i tronchi, e squarciare quell’immagine fatua che s’era per un istante materializzata sotto i nostri occhi, prima di scomparire per sempre. Gianpiero era salvo.
Lui stesso fece una corsa per dare l’allarme, e di lì a una mezz’ora giunsero i pompieri. Ma la pineta era distrutta, e noi quella stessa notte ci dovemmo spostare in un altro luogo, e in fretta, per non farci denunciare, noi che avevamo dato l’allarme. Lì hanno poi costruito una mega-discoteca.
Io non credo al destino, non ci ho mai creduto. Ma ieri ho saputo che Gianpiero è morto suicida, cospargendosi di benzina e dandosi fuoco nel giardino di casa sua. Dicono tutti che avesse l’AIDS. Non so, forse mi sbaglio, ma appena ho appreso il modo in cui Gianpiero è morto, mi è ritornata in mente questa storia, nella quale ora mi sembra di capire che tutti i segni della sua fine, già allora, fossero ben chiari.
[1999]