Che ci faceva lì, in quelle confuse palestre di parole astruse di cui spesso gli sfuggiva persino il significato preciso? Avvertiva di tanto in tanto un confuso senso di straniamento, una vaga sensazione di indefinito disagio. Gli sembrava di assistere a dei misteriosi cerimoniali di cui gli erano completamente sconosciuti i passaggi liturgici e i fini ultimi. A questo senso di sradicamento ed estraneità si accompagnava il rimorso per il tempo perduto.
Non aveva ancora sostenuto nemmeno un esame e c’era tanto da studiare per mantenere la soglia minima che gli avrebbe permesso di restare alla casa dello studente.
Lui, che anche al liceo aveva sempre mantenuto una certa distanza dai più accesi sostenitori del Sessantotto, si sentiva fuori posto, impreparato, inadeguato, e tuttavia stranamente affascinato da quel clima rovente di radicali contrasti politici e ideologici.
Di tanto in tanto chiedeva lumi al suo compaesano Pietro, iscritto al PCI già da tre anni e alquanto scafato politicamente. E Pietro si prestava volentieri a fornirgli spiegazioni dettagliate, ovviamente di parte, con la speranza, nemmeno tanto velata, di portarlo nel partito.
Ma la politica non sembrava fatta per Marco.
Timido e un po’ introverso, era troppo indeciso per gettarsi nella mischia. Così restava sempre a sentire quel che dicevano gli altri.
Anche i tragici eventi del colpo di stato in Cile lui li aveva vissuti, per così dire, di riflesso. I suoi amici invece, tutti di sinistra, ne avevano fatto una malattia. E lo bombardavano di notizie sulla ferocia del dittatore, sulle responsabilità degli Stati Uniti d’America e sull’intervento della CIA, sulla necessità di una grande mobilitazione delle masse contro Pinochet per la difesa del popolo cileno, della democrazia e della libertà.
In quel clima di forti contrapposizioni ideologiche e di veementi scontri verbali era inevitabile che l’arrivo di un esule cileno venisse vissuto da Pietro come un autentico privilegio e un evidente riconoscimento della sua affidabilità politica.
Non si seppe mai chi avesse deciso di alloggiare Pablo proprio nell’appartamento di Pietro e Marco. Tuttavia non sembrò casuale la presenza in quell’appartamento di Gianni, responsabile della cellula della casa dello studente, che faceva capo alla sezione universitaria del PCI.
Pablo, ospitato in una camera rimasta fortuitamente libera per il rientro a casa di uno studente malato, fu accolto con indicibile entusiasmo. Poi venne immediatamente assediato da Gianni e Pietro, assetati di notizie e commenti politici. Com’era Salvador Allende? e Pablo Neruda? le miniere di rame? i sindacati? i rapporti tra i partiti di Unidad Popular?
Pablo rispondeva a tutto con paziente cortesia in un italiano quasi perfetto, inframmezzato raramente da qualche parola in spagnolo. Il linguaggio di alto livello, elegante e un po’ accademico, denunciava immediatamente l’intellettuale di vaglia.
Era infatti un professore universitario di fede socialista, fuggito avventurosamente dal Cile per mettersi in salvo.
L’estrema magrezza del viso, unita a una vaga aria di spaesamento e di malinconia, gli conferivano le stimmate dell’esule.
Gli occhiali tondi, cerchiati da una montatura metallica color oro, spiccavano sul colorito olivastro del volto, ma non riuscivano ad offuscare i frequenti guizzi degli occhi vivaci e indagatori.
Travolti dalla passione politica e dall’entusiasmo della giovane età, Gianni e Pietro lo martellavano con domande incalzanti, a volte anche sugli aspetti più inquietanti e drammatici del golpe.
Ma come potevano – pensava Marco – non rendersi conto dell’inopportunità di quelle loro domande? Continuavano a girargli il coltello nella piaga, senza alcun riguardo per i suoi sentimenti, i ricordi scioccanti, l’incertezza angosciosa sulla sorte dei suoi familiari e amici.
Pablo, con il suo tono di voce pacato e cantilenante, riportava il discorso sui temi generali, glissando sulle domande relative all’assassinio di Victor Jara, allo stadio di Santiago, ai dissidenti prelevati casa per casa, alle torture e alle stragi.
In quel tono di voce un ascoltatore attento avrebbe facilmente indovinato la dolorosa tempesta di pensieri e sentimenti che infuriava nella mente e nell’animo di Pablo, combattuto tra la sconfortante rassegnazione causata dalle terrificanti notizie che in qualche modo giungevano dal suo paese e la vacillante, ma inestinguibile, speranza di salvezza per i suoi cari e per la patria.
Marco era sicuro che quei discorsi tenuti lì, in quel piccolo appartamento dove anche i mobili impiallacciati in formica, con la loro anonima freddezza, sembravano ricordargli la sua triste condizione di esule, provocassero in Pablo un’enorme sofferenza.
Eppure lui sapeva sgombrare la mente dall’ansiosa incertezza sulla sorte della sua famiglia, riusciva a far tacere la voce del suo cuore sanguinante. Intuiva che un imperativo categorico si imponeva al suo essere.
Non poteva deludere le speranze di quei giovani studenti. Erano animati da una passione politica fervente ed autentica, lo colmavano di mille piccole attenzioni e manifestavano tanta fraterna solidarietà per il suo povero popolo martoriato!
E poi, erano così giovani! Avrebbero avuto tempo per veder crollare inesorabilmente i loro sogni. Ma, in quel momento, avevano diritto alla speranza. Potevano e dovevano credere che la ragione avrebbe trionfato sulla forza bruta, che la dittatura non sarebbe durata a lungo, che el pueblo unido jamás será vencido.
E allora parlava, parlava, parlava. Dei viaggi di Neruda per tutto il paese a tenere comizi, delle coraggiose nazionalizzazioni decise da Allende, delle magnifiche illusioni suscitate da Unidad Popular, della CIA e delle multinazionali, dei sacrifici della gente, della dignitosa povertà di larga parte della popolazione. Della speranza. Del futuro.
Sparì all’improvviso, così com’era arrivato, e nessuno ne seppe più nulla.
Marco ricordava che una volta, quando gli venne offerto da bere un bicchiere di vino, Pablo ringraziò educatamente e lo bevve dopo aver precisato che lo avrebbe “mangiato” volentieri. Perché, spiegò, in Cile la povera gente non “beveva” il vino, lo “mangiava” per rinvigorirsi e poter affrontare la dura giornata di lavoro che l’attendeva.
Allora a Marco fu chiara l’immensità del dolore di Pablo.
E l’affermazione che l’uomo è un animale politico non gli apparve più un’astratta tesi filosofica.
[“Il Galatino” del 17 gennaio 2020]