Di mestiere faccio il linguista 22. Parole che fanno male alle donne

Il fenomeno richiede attenzione, non si tratta di un caso isolato. I social network traboccano di volgarità, di espressioni violente e di minacce con riferimenti sessuali. La Presidente della Camera ha fatto benissimo a denunziare questi messaggi indicandone anche il mittente, chi si esprime in modo così squallido deve essere identificato e richiamato alle proprie responsabilità.

La rete è un mezzo meraviglioso, una miniera praticamente inesauribile di informazioni e riflessioni. Ma attenzione. Non sempre le informazioni che vi circolano sono attendibili, spesso si tratta di vere e proprie falsità, magari messe in giro ad arte. «Non è vero ma ci credo – Vita, morte e miracoli di una falsa notizia» è il titolo del convegno che si è svolto il 29 novembre nella Sala della Lupa di Montecitorio. Morale: verificare sempre, fa bene all’intelligenza e alla democrazia. La rete a volte può rivelarsi terribile, vi circola un’enorme quantità di «parole per ferire» (così le definisce Tullio De Mauro nell’«Internazionale» del 27 settembre 2016), «parole, parolacce e paroline» usate nella lingua di tutti i giorni, attraverso le quali vengono veicolate intolleranza, discriminazione e odio. Diventa un vero strumento di tortura, sono numerosi i suicidi di persone che non resistono alla pressione moltiplicata del mezzo e alla violenza estrema che vi circola. Di fronte a problemi così complessi in molti invocano interventi legislativi. «Cosa aspettiamo a mettere un freno, anche legale, a questo stupidario minaccioso e insolente?» reclama Dacia Maraini sul «Corriere della Sera» del 26 novembre. È giusto, non possiamo far finta di niente, dobbiamo far qualcosa. Anche la lingua può fare la sua parte, l’uso adeguato del lessico conta moltissimo.

Una parola non più tanto nuova, impiantatasi nella lingua da una decina d’anni per indicare qualcosa che accade da sempre e che oggi si ripete spessissimo, è femminicidio. Significa l’ ‘uccisione di una donna o di una ragazza’, ma anche ‘qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte’. Così dicono i vocabolari: i vocabolari sono preziosi, ci insegnano moltissime cose, se sappiamo interrogarli. Un collega intelligente mi ha chiesto: perché inventare una nuova parola, non basterebbe omicidio, una parola che già esiste e che tutti conoscono? Omicidio secondo i vocabolari dell’italiano indica l’uccisione di una o più persone. E quindi la parola omicidio può riferirsi sia all’assassinio di donne che a quello di uomini.

Il dubbio è legittimo. Se l’italiano ha già la parola omicidio, che indica l’assassinio dell’uomo e della donna, perché creare una parola nuova? Non è inutile? La risposta, anche in questo caso viene dai vocabolari. La voce femmina viene spiegata cosi: ‘essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo’. Badate all’aggettivo spregiativo, la soluzione è lì. Anche ai piani alti della letteratura: «Femina è cosa mobil per natura» afferma Petrarca, 183 12, per la verità con accezione più negativa che spregiativa, riprendendo un luogo comune secolare che rimonta a Virgilio, Eneide IV 569: «mutabile semper femina». Chi userebbe la parola femmina per definire la propria moglie, la propria madre, la propria sorella o la propria figlia? Nei dialetti meridionali malafemmina indica una donna di facili costumi, ricordate la notissima canzone napoletana Malafemmena scritta e musicata da Totò (1951) e il film collegato Totò, Peppina e la malafemmina di qualche anno dopo (1956). Il femminicidio, l’assassinio della femmina, indica il delitto  commesso da chi considera la moglie, la compagna, l’ amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se la donna si rifiuta, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca che nasce da un atteggiamento culturale ributtante.

Quando in una società si generano forme mostruose di sopraffazione e di violenza è opportuno inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione. Non si tratta di una parola inutile o in più: l’invenzione del neologismo indica un rovesciamento di prospettiva rispetto al sentire di alcuni, costituisce una fondamentale precisazione culturale e morale, chiarisce le implicazioni etiche collegate. E quindi è giusto usare femminicidio, per denunziare la brutalità dell’atto e per indicare che si è contro la violenza e la sopraffazione. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola femminicidio; il generico omicidio risulterebbe troppo blando.

Torniamo all’episodio di partenza, alla denunzia pubblica fatta dalla Presidente della Camera. Insulti e allusioni malevole purtroppo non sono esclusiva di alcuni imbecilli che approfittano della copertura che la rete fornisce per dare sfogo alla propria violenza malata. È bellissima la raffigurazione che Maurizio Crozza fa dell’odiatore telematico di professione, che insulta chiunque gli capiti a tiro informatico e così dà sfogo alle sue frustrazioni. Non sono immuni da questa attività personaggi pubblici dimentichi del proprio ruolo, forse alla ricerca di facili consensi elettorali, più presunti che reali (credo a elettori più saggi e probi dei loro rappresentanti). Circa 3 anni fa Beppe Grillo postava sul suo profilo Facebook con finta ingenuità la seguente domanda: «Cosa faresti se ti trovassi la Boldrini in macchina?». Le risposte dei seguaci non si fecero attendere: moltissimi gli insulti (spesso a sfondo sessuale), i suggerimenti alla violenza, le frasi di scherno. Più recentemente Matteo Salvini  ha così commentato l’arrivo sulla scena di una bambola gonfiabile durante un comizio a Soncino, in provincia di Cremona: «C’è una sosia della Boldrini qui sul palco. Non so se sia già stata esibita…». Di fronte alle critiche, Salvini ha confermato il suo atteggiamento e non si è scusato («anzi è lei che dovrebbe chiedere scusa agli italiani»). Su Facebook  ha scritto: «Ipocrita, buonista, razzista con gli italiani. Dimettiti!» con tanto di foto e sopra la scritta «#sgonfialaboldrini». Ancora la rete come facile mezzo per offendere.

Sta a noi compiere scelte linguistiche adeguate, usare la lingua per argomentare e per difendere le proprie ragioni puntando sul convincimento e non sull’irrisione o sulla sopraffazione. Ovviamente l’uso corretto e moderato della lingua non può impedire la violenza che attraversa la società. Ma può favorire la presa di coscienza dei comportamenti collettivi e, in una certa misura, contribuire al miglioramento della società.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 4 dicembre 2016, p. 10]

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