Qualche volta andiamo ancora a cercare i libri e riviste che affrontano argomenti simili a quelli che ci stanno a cuore. I viaggi, ad esempio. C’era chi leggeva un libro sulla Costa Azzurra un mese prima di partire fantasticando sui dettagli del treno e immergendosi, per così dire, nell’atmosfera del luogo prima di arrivarci, passando poi a sfogliare una monografia su Matisse che ci era vissuto o, per andare al di là dei francesi, arrivando perfino a leggere i diari di Gombrowicz, che ci ha trascorso gli ultimi anni di vita immerso nei libri di filosofia. Altri, più sobri, leggevano semplicemente per raccogliere informazioni in modo da rendere più concrete decisioni organizzative già prese. Conosco poi un certo numero di persone che compra guide o libri di reportage al ritorno da un viaggio per confrontare la propria esperienza con quella degli altri e cercare di capire, ad esempio, se davvero si debba sempre dare ragione a uno scrittore come V. S. Naipaul.
Fino a due decenni fa è andata più o meno così: adesso, il più delle volte, in queste circostanze lanciamo una ricerca su Google. Si tratta sempre di esperienze di lettura, ma la loro modalità è profondamente diversa. L’investimento, in termini di tempo, non è comparabile e anche la ricerca, che era del tutto in mano nostra – compreso lo spazio che il suo svolgimento concedeva all’immaginazione – ora nella prassi è affidata a un algoritmo la cui risposta arriva in due secondi. Così, a meno che uno non legga per ragioni professionali, si è persa in parte l’abitudine alla lettura intensiva. Siamo meno devoti al testo che, rispetto agli onori in cui era tenuto cinquant’anni fa, appare destituito di importanza e più lontano dall’essere inteso quale fonte di una verità che può venire in luce: oggi sembra più che altro uno strumento orientativo. È un fenomeno sul quale vale la pena di riflettere. Molti, irretiti dall’esigenza di essere moderni a tutti i costi, si sentono confortati dal venir meno di una necessità che affrontavano a fatica (finalmente quasi nessuno chiede più loro se leggano o meno) e siedono contenti in sala d’aspetto, osservando l’atterraggio degli aerei con in mano la custodia del proprio cellulare.
2.
Ma orientarsi non basta. Decifrare noi stessi e il mondo richiede maggior attenzione. Senza risalire ai tempi della gloria di Pergamo o di Alessandria, nel corso del tempo e sicuramente fino alla fine del Novecento in numerosi palazzi pubblici di nuova edificazione era prevista una stanza dedicata specificamente alla lettura, sempre degna di ogni considerazione, per quanto non altrettanto spesso praticata: quella stanza era la biblioteca. Chi visita Palazzo Leopardi a Recanati può stupirsi dello spazio relativamente contenuto nel quale il giovane Giacomo pose mano ai sui lavori. Oggi, in tempo di digitalizzazione del patrimonio librario e della scrittura elettronica, difficilmente potremmo prevedere un’altrettanto durevole influenza dell’attività di lettura sulla progettazione architettonica di un edificio. Perciò, per quanto ciascuno di noi ricordi con affetto le biblioteche più antiche in cui ha trascorso giornate intere, siano la sala circolare della vecchia British Library a Londra, o la sala di lettura Sainte-Geneviève alla Sorbonne di Parigi, o ancora la vicina Bibliothèque Cujas, in cui ero riuscito a entrare con un sotterfugio a cui devo ancora molto – fingendomi al colloquio uno studente di Storia del diritto –, guardando ai tempi che verranno e alla diffusione dei dispositivi elettronici sarà forse opportuno ricordare con maggiore attenzione la lettura all’aria aperta, come per me quella di un lontano pomeriggio seduto sui gradini di cemento sotto la tettoia di vetroresina di una colonia marina, con in mano un romanzo e nell’altra un pezzo di pane.
Che si tratti di una lettura istituzionale o di una lettura privata, è necessario considerare la disposizione d’animo con cui ci si appresta a leggere, un gesto di raccoglimento nei confronti della decodificazione, comprensione, interpretazione dei segni; competenze, specie l’ultima, di difficile accertamento. Non essendoci prescrizioni universali per questa attività, ognuno si accosti pure alla lettura come meglio crede: abbia però il coraggio di servirsi della propria testa. Questo, oltre a rinnovare il motto di Kant, resta un servizio che ciascuno deve a se stesso e agli altri. Non si accontenti perciò della prima impressione, vada più a fondo e chieda di più al libro che ha davanti. Se quest’ultimo offre un buon servizio, posso garantire che anche un pomeriggio sotto una povera tettoia acquista subito un colore diverso (per me, trionfale).
Mentre scrivo, i risultati delle rilevazioni internazionali Ocse-Pisa sulla scuola riportano un peggioramento delle competenze di lettura degli studenti italiani del 2018, rispetto alla rilevazione del 2000. A prescindere dalla discussione sui dati, gli studenti comprendono un po’ meno quello che leggono. Forse lo ritengono meno rilevante. Faccio un esempio. Lo scorso anno, dopo essere stato richiamato all’attenzione davanti alla lettura incerta di un brano sulla Guerra dei cent’anni, uno studente di terza liceo scientifico ha alzato lo sguardo verso di me obiettando che la mia interruzione gli sembrava eccessiva: «Lo dice quasi come se fosse questione di vita o di morte». Ecco, questa espressione risulta decisamente eccessiva, ma che nella lettura in fondo ne vada sempre un po’ della nostra vita, volendo condurre il ragionamento agli estremi, è vero. Del resto, dalla cattiva lettura di un divieto o di un articolo del Codice penale possono discendere delle conseguenze imprevedibilmente concrete. Maryanne Wolf si è dedicata diffusamente ai problemi di lettura nell’era digitale.
In questo atteggiamento sbrigativo nei confronti della lettura si esprime una sopravvalutazione del presente che nei giovani appare comune – del resto, per loro, come era per noi, quello è il momento in cui cominciano a uscire dalla dimensione familiare – ma che oggi viene tollerata pubblicamente in grado inatteso: la famiglia seduta in sala d’aspetto con la custodia del cellulare in mano sente di vivere un’epoca così strabiliante da non meritare alcun paragone col passato, come se l’abbondanza di dispositivi avesse risolto anche i problemi di lettura. Vive in un parco a tema dal quale si rifiuta di uscire; eppure il varco sarebbe lì a due passi, anzi ce l’avrebbe in mano.
Nel saggio del 1919 dedicato alla Lettura Virginia Woolf ricordava come in un tardo pomeriggio in biblioteca, dopo aver riposto un pesante in folio sullo scaffale, la linea bruna dell’ombra dei volumi si fosse accentuata sul muro e lei allora avesse scorso le dita sui dorsi leggermente rigonfi dei libri di storia e di memorie. Guardando verso il giardino le sembrava che la stanza silenziosa alle sue spalle fosse in realtà altrettanto piena di vita del quadro che appariva oltre il vetro, in cui qualcuno – per me due giovani coppie – giocava a tennis. Consapevole dello scorrere del tempo e dell’incommensurabilità dei due quadri, concludeva: «Un mare davvero profondo il passato, una marea che ci coglierà all’improvviso sommergendoci».
Leggere rende manifesto il tempo come distensione dell’anima, nel modo in cui lo aveva chiarito S. Agostino; chiudere il libro e guardare dalla finestra rende evidente la soglia della coscienza. Ma seguiamo di nuovo Virginia Woolf:
“La prima operazione, quella di ricevere impressioni con la massima attenzione, è solo metà del processo di lettura; essa va completata con la restante metà, se vogliamo trarre il massimo piacere da un libro. Dobbiamo sottoporre questa folla di impressioni a un giudizio; dobbiamo trarre da queste forme fuggevoli una che sia forte e duratura. Ma non subito. Aspettate che si sedimenti la polvere della lettura; che si spengano tutti gli interrogativi e le contraddizioni; fate quattro passi, parlate, staccate i petali secchi di una rosa, oppure andate a riposarvi. Poi, improvvisamente, senza volerlo, perché è così che la Natura opera queste transizioni, il libro ritornerà, ma in maniera diversa. Riaffiorerà alla mente nel suo insieme. E il libro nel suo insieme è diverso dal libro quale l’abbiamo conosciuto materialmente, suddiviso in frasi separate. Ora tutti i dettagli si collocano perfettamente nel punto in cui sono. Riconosciamo l’intera struttura dall’inizio alla fine; è un granaio, un porcile, una cattedrale. Solo adesso siamo in grado di confrontare un libro con un altro, come paragoniamo due edifici tra loro.”
Solo l’accuratezza con cui compiamo la prima operazione può condurci alla conoscenza effettiva dell’insieme. L’esperienza e la nostra mente si occuperanno di ricomporla a tempo debito.
La lettura dei romanzi ci ha educato con la sua natura sia estensiva (per numero di volumi), che intensiva, per l’attaccamento particolare a un gruppo di libri e l’investimento affettivo che ci teneva legati alla pagina. Senza ripetere l’accenno alle patologie di lettura, come quelle che rendono immortali don Chisciotte ed Emma Bovary, si può ricordare che, oltre a una modalità di lettura che ci avvince con l’identificazione, possiamo contare anche su una lettura più lenta, che intraprendiamo per affrontare una questione al fine di arrivare a riformularla. È la lettura che troviamo esemplificata nel personaggio della giovane Ottilia nelle Affinità elettive di Goethe. Una lettura estremamente personale, condotta al fine di fare propria la questione per poterla poi esporre in termini originali.
3.
Naturalmente, non è che tutto questo oggi non possa più aver luogo. Quattro anni fa ho riletto l’edizione del 1840 dei Promessi sposi sul cellulare, prendendo appunti sul computer portatile che avevo a fianco. La lettura ha riacceso una serie di impressioni che ricordavo, ne ha rese più vive altre. Ho letto vari libri recenti in formato epub, sia sul tablet che sul computer portatile.
Stiamo senza dubbio attraversando un cambiamento epocale nella trasformazione dei supporti della scrittura, come è già accaduto nella storia passando dal rotolo al codice, ossia alla forma del libro come l’abbiamo conosciuta – in modo definitivo nel V secolo dopo Cristo – e quindi dal codice alla stampa, nella seconda metà del XV secolo. Il problema non è tanto il cambiamento in sé, quanto quello di riconoscere in questo processo la necessità di tener vive sia la lettura che la scrittura; ciò comporta indubbiamente qualche complicazione perché a questo cambiamento epocale se ne è sovrapposto un altro nell’ambito della distribuzione dei contenuti attraverso la rete, che ha portato alla possibilità di rendere immediatamente pubbliche le proprie affermazioni. Il risultato è che si legge male e si scrive in fretta, pur di far notare la propria presenza.
Nelle prime pagine di Bianco, Bret Easton Ellis scrive di essersi reso conto negli ultimi anni del calo dell’aspettativa dei lettori davanti alla presentazione dei nuovi romanzi dei maggiori autori americani, che non sono più accolti con l’eccitazione che li faceva subito giudicare bene o male, innescando una discussione, ma che anzi, un po’ come accade a ogni album musicale recente o a un nuovo film, ora suscitano poca attenzione e tendono a cadere nell’irrilevanza. La sovrabbondante produzione narrativa multimediale e social, distribuita capillarmente tramite i dispositivi digitali e con contenuti prodotti in parte dagli stessi utenti, ha accresciuto l’offerta in misura imprevedibile, sconvolgendo le dinamiche della domanda: non è che non sappiamo più scegliere, non sappiamo più cosa desiderare. E un desiderio volatile è sempre fragile.
Un tempo si usava dire che ciascuno porta dentro di sé un romanzo: nessuno aveva niente da obiettare. Se poi sei uno che scrive, ci devi credere per forza – e io infatti non faccio fatica a crederlo – ma come osservava Martin Amis nel Preambolo del suo magnifico libro Esperienza, in tempi più recenti si è stati indotti a pensare che ognuno abbia dentro di sé al massimo un memoir, un’autobiografia. Questa viene concessa a tutti: del resto, tutti hanno una vita; l’invenzione, invece, piace un po’ meno perché chiede al lettore di mettersi in una posizione diversa, di assumere per vere le parole di un altro e di farle proprie senza aggiungervi sotto un commento di proprio pugno prima ancora di averle lette (un tempo lo potevi fare solo sui margini del libro, ma quella nota non diventava social, la leggevi tu, o – tranne che in casi eccezionali – i tuoi familiari). In effetti, la letteratura di finzione, per breve che sia, richiede la disponibilità ad accordare fiducia all’autore e un minimo sforzo di lettura. Nel caso poi l’autore sia bravo, può nascere perfino una disaffezione per la lettura, perché rende palese lo squilibrio di competenza fra chi legge e chi scrive, un tempo benvenuto, oggi osteggiato (la letteratura si è fondata su questa distinzione: in Gadda si apprezzano le doti di scrittore).
Nel tempo in cui questa fiducia si è incrinata, fa un po’ sorridere che per i romanzi si stia facendo largo una considerazione extraletteraria legata al corpo del volume: avendo speso venti euro per un libro da seicento pagine, può essere, infatti, che mi senta indotto maggiormente a leggerlo. Il meccanismo per cui si è tentati di dire che, se una cosa è costata, allora vale, era stato smascherato a suo tempo dal sarcasmo demistificatore di Nietzsche in Umano, troppo umano I (aforisma 229) e ora richiederebbe un aggiornamento. Non è detto, infatti, che solo perché ci sono costate sacrificio le cose siano anche giuste, o in questo caso belle; ma così sembra andare per l’acquisto dei grossi romanzi che troviamo oggi sugli scaffali in libreria.
Per i racconti, purtroppo, le cose vanno decisamente peggio e rendono ancor più palese il meccanismo della lettura sfiduciata. Confesso il mio disappunto perché questa forma breve, in cui ho spesso scritto e che avevo creduto fortunatamente adatta anche alla lettura digitale (misura breve, breve sforzo per il lettore, breve intervallo di fiducia da accordare all’autore) risulta la meno letta sulle riviste on line: meno della poesia, la cui lettura in termini di tempo costa pochissimo. In un contesto in cui tutti si sentono scrittori, leggere l’invenzione di un altro, specie se riuscita, può dare fastidio. Poiché l’enorme offerta di fiction ha raggiunto livelli di pervasività tale da arrivare letteralmente in mano a tutti, la letteratura, fra libri cartacei e riviste per lo più elettroniche, ha subito un contraccolpo da cui non si è ancora ripresa.
4.
Se il primo mutamento epocale, quello della progressiva sostituzione dei supporti della scrittura, dalla carta ai file elettronici, non ha sconvolto più di tanto i meccanismi di fruizione della letteratura, il secondo, quello della distribuzione dei contenuti in rete, offrendo la possibilità istantanea di intervenire su questi contenuti e di commentarli, ha mutato la considerazione che il lettore ha di sé, trasformandolo in parte in un prosumer, ossia un consumatore che produce contenuti (a prescindere dal valore di questi). Si parla ogni giorno di User generated content, di contenuti prodotti dagli utenti. Il lettore comune di Virginia Woolf si è trasformato in un lettore che cerca di far sentire a tutti la propria voce.
Conseguentemente, sono cresciute dinamiche come il cosiddetto «pensiero di gruppo», che porta le migliaia di persone intente a intervenire in rete su un problema – solo per la volontà di partecipare alla discussione, a prescindere dalla propria competenza – a pretendere che chi si occupa della soluzione di quel problema lo faccia poi secondo la procedura che, a suon di maggioranza nella discussione, viene considerata la più opportuna, destituendo così di senso la competenza e i risultati della ricerca scientifica. Sempre in Bianco, Bret Easton Ellis è efficace nel dare conto di alcuni esempi che mostrano in queste dinamiche la crescita impetuosa dell’ipocrisia fra comportamento pubblico e condotte private. Negli Stati Uniti la recente discussione pubblica ha di fatto imposto il costume per cui appare del tutto superficiale e censurabile giudicare qualcuno partendo da qualsiasi carattere del suo aspetto esteriore, perché in tal modo gli si reca danno, si nuoce alla sua identità (sessuale, politica, religiosa). Quindi, nei discorsi ufficiali bisogna mostrarsi estremamente cauti. Questa considerazione, che in ambito strettamente giuridico troverebbe forse la sua ragion d’essere, ha rovinosamente invaso l’ambito estetico creando qualche contraddizione non ancora manifesta in tutta la sua portata. Se nella discussione pubblica non si può giudicare un uomo o una donna dal loro aspetto, neppure la foto di una modella messa proprio per questo sulla copertina di una rivista, in quella privata il successo delle applicazioni per cellulare rivolte agli incontri a scopi affettivi o sessuali – dilagate in ogni paese e attivate ogni giorno da milioni di utenti – partendo proprio dalla valorizzazione dell’aspetto esteriore, ci dice esattamente il contrario.
Sembra che la lettura, come operazione, abbia perso il suo carattere esclusivo. Come per la pittura dopo l’invenzione della fotografia, l’esplosione della rete Internet ha prodotto un’incredibile e impetuosa moltitudine di lettori e commentatori naïf, la cui pretesa è di imporre la naïveté come modalità espressiva tendenzialmente universale. Scegliendo un altro stile, più consapevole, uno può essere censurato a suon di commenti anonimi diffamatori, quando non accusato in primo luogo di essere lui stesso un hater, uno degli odiatori seriali che hanno trovato rifugio nella rete e che detestano, appunto, la moltitudine (in questo caso, però, accusatrice).
Sia Il piacere del testo di Roland Barthes, sia il davvero troppo lodato Come un romanzo di Daniel Pennac, dedicandosi a chiarire i vari aspetti dell’esperienza di lettura oggi rischiano di apparire libri che si interrogano su un’operazione specifica, più che sul fenomeno della lettura in generale. La percezione di questa attività è cambiata: sono ad esempio venuti meno i pregiudizi verso chi non sa leggere e scrivere; non parlo di chi arriva in Italia con mezzi di fortuna, analfabeta nella propria lingua madre, ma di chi, cresciuto nel nostro paese, scolarizzato e privo di disturbi specifici dell’apprendimento, in età adulta non capisce quello che legge. Fra i banchi del mercato o al bar non ci si fa più caso: nessuno oserebbe rimproverarlo. Qualcuno troverà questo mutamento di costume un sicuro passo avanti nella direzione del rispetto di una sempre più astratta identità personale; va però ribadito che leggere e scrivere sono competenze frutto insieme di una conquista individuale e di un dovere civile. Per non dire altro, è difficile acquisire ulteriori competenze di cittadinanza attiva se non si riesce a superare questo scoglio.
Alcuni studi si sono soffermati sulle insidie della lettura on line. Una delle più gravi riguarda la determinazione del contesto delle affermazioni, visto che la rete di fatto, amplificandolo a dismisura, lo rende indifferente. Lo strutturalismo ci ha insegnato quanto il contesto sia rilevante per capire il senso di una frase: le battute da spogliatoio di una squadra di calcio, ad esempio, hanno senso in quel contesto e di fatto restano per lo più in quel contesto. Fuori di lì, in buona parte dei casi risulterebbero quantomeno sconvenienti. L’antifrasi, la più rischiosa delle figure retoriche, è letteralmente una contro-espressione, ossia un’espressione che si definisce in modo opposto rispetto al significato delle parole impiegate (ad esempio «e ora viene il bello»). Il rischio dipende dal fatto che ciò che rende ironica questa figura retorica, ossia l’intonazione che nella lingua scritta deve essere assunta dallo stile, negli interventi dei commentatori on line, per scarsa padronanza della scrittura, spesso non è facilmente intuibile. Né può venire in aiuto il contesto, che è incomparabilmente più vasto di uno spogliatoio. Di qui l’impiego delle emoticon da parte di chi non padroneggia l’espressione o di chi non si fida (o di chi le usa ormai in funzione pittografica).
Nel libro La guerra di tutti, Raffaele Alberto Ventura si interroga fra le altre cose su questa «falla comunicativa» per cui in rete «è sempre più difficile stabilire quale sia il registro necessario per interpretare un testo». Come distinguere un’affermazione seria da un’antifrasi? I politici più spregiudicati sfruttano questa falla «producendo enunciati polisemici ovvero leggibili in vari contesti con significati diversi», ammiccando in modo pesante al loro elettorato sotto una sottile maschera di ironia. Come ha scritto Ventura: «Internet è una potente macchina di decontestualizzazione per cui ogni cosa che viene resa pubblica rischia presto o tardi di essere ricontestualizzata fino al suo massimo grado di fraintendimento».
Un gruppo Whatsapp di amici o di colleghi definisce in termini impliciti, senza bisogno di specificarlo, un codice e un contesto comuni. Da questo punto di vista un thread, una sequenza di commenti sotto un filmato di Youtube, è già più difficile da valutare, così come i commenti di chi reagisce al tweet di un personaggio pubblico; in entrambi i casi la discussione tende a polarizzarsi (o pro, o contro) anche perché l’utente-lettore tende al pregiudizio di conferma (confirmation bias), la tendenza cognitiva a trovare in rete ciò che è coerente con la propria convinzione e a servirsene strumentalmente. Il contesto della rete assume così dinamiche tribali. Se a questo aggiungiamo la possibilità – offerta da agenzie specializzate – di creare diverse migliaia di profili falsi che inquinano la discussione con innumerevoli commenti orientandola secondo la volontà del committente, si capisce che il compito del lettore non è dei più facili. Internet tende a suscitare l’illusione della dimensione orizzontale dei discorsi, ossia della loro sostanziale equivalenza; ma non tutti i testi e non tutti i contesti hanno uguale riscontro: ciò che si dice in coda al supermercato ha diverso rilievo da ciò che si dice in un colloquio all’Agenzia delle Entrate. E questo, per quanto sembri meno immediato, vale anche per la rete. Benché la retorica come disciplina sia pressoché invincibile, il consenso attorno a una posizione non è sempre indice della sua esattezza o giustizia.
5.
Come per troppi altri aspetti della vita, anche il nostro rapporto con i segni cambia nel tempo. Di qui la gelosa indulgenza con cui ricordiamo i nostri primi accostamenti alla parola scritta, alle pagine dei fumetti – «Topolino» per me, a quattro anni – che insieme alle fiabe nutrivano i primi interrogativi sulla libertà dell’uomo e sull’efficacia della sua azione su ciò che lo circonda. È presumibile che nella stagione attuale, in cui come dicevamo si sovrappongono due mutamenti epocali, la carta e il digitale continueranno a convivere, come accadde nella prima metà del Cinquecento per la stampa e i codici miniati. Ma se il supporto cambia, e cambia la familiarità un po’ sbrigativa con la scrittura on line, nulla vieta di supporre che le letture delle vacanze continuino ad avere un loro fascino esclusivo e privato, custodito con cura dal ragazzo che sfugge agli obblighi sociali imposti dalla famiglia allargata, dalle visite inattese. Lo sfugge già adesso, rifugiandosi in fondo alla sala a scrivere sullo smartphone.
Per quanto gli oggetti possano mutare, dare per archiviato il rapporto tra materia e memoria sembra un azzardo platealmente superficiale; se è vero che ricordiamo con scarsa considerazione i vari modelli di cellulare che abbiamo comprato, le cose non vanno allo stesso modo con ciò che abbiamo letto, che anzi sedimenta in noi le circostanze, i luoghi in cui lo abbiamo letto. Funziona poi come madeleine del passato; ma non solo. Così mia nipote, una ragazza di terza media dotatissima di smartphone, a fine estate mi ha rincorso per sottolineare come a suo modo di vedere Caroline Bingley nel romanzo Orgoglio e pregiudizio sia molto più «acida e stronza» di quanto le versioni cinematografiche recenti la abbiano dipinta. Ricordi della sua vacanza, ma forse non solo della vacanza.
Nel Piacere della lettura, saggio che aveva apposto alla sua traduzione commentata del 1906 di Sesamo e i gigli di John Ruskin, Marcel Proust, dopo aver mirabilmente ricordato per quindici pagine gli scenari e i protagonisti delle sue memorie di lettura infantile, menziona una delle doti principali di questa attività:
“La lettura, infatti, al contrario della conversazione, consiste per ciascuno di noi nel venire a conoscenza del pensiero di un altro senza smettere di essere soli, vale a dire continuando a godere del vigore intellettuale che si ha in solitudine, e che la conversazione dissolve immediatamente, continuando a restare ispirati, in pieno lavorio fecondo della mente su se stessa.”
Ci vogliono, in effetti – come abbiamo visto in Virginia Woolf – entrambe le azioni, la lettura e l’osservazione della realtà; la riflessione, o il dialogo, più che la conversazione di circostanza. Del resto, lo ricordava lo stesso Proust mentre metteva in guardia il lettore dal costume del letterato che, senza attività originale, riuscendo solo a citare passi dei libri degli altri, perde ogni vigore di ingegno.
“Per una legge singolare e del resto provvidenziale dell’ottica dello spirito (legge la quale significa forse che non possiamo ricevere la verità da nessuno, ma dobbiamo essere noi a crearla), ciò che è il termine della saggezza degli autori ci appare come il cominciamento della nostra, sicché non appena ci hanno detto tutto quanto erano in grado di dirci fanno nascere in noi la sensazione di non averci ancora detto nulla.”
Sono considerazioni che valgono anche in un contesto digitale. Richiedendo più sforzo della visione di un film – e anzi, proprio in funzione di questa parte impegnativa inerente la decifrazione materiale dei caratteri –, la lettura ci porta più vicini a noi stessi: dobbiamo però fare da soli le bracciate di mare ancora necessarie per raggiungere la riva. Resta però da chiarire quale sia questa riva. Essa dipende, in parte, anche dalle letture che abbiamo fatto. Il profilo di un’alternativa esistenziale rispetto a ciò che ci troviamo a vivere emerge con forza plastica dai grandi libri e influenza l’immagine che abbiamo di noi stessi. Ma già le prime letture, le fiabe o i fumetti, di fronte agli ostacoli e nei limiti delle circostanze materiali in cui ci troviamo, ci insegnano come dicevamo l’ambito di esercizio della nostra libertà.
Forse la definizione più nota del saggio di Pennac Come un romanzo è quella per cui la lettura è tempo rubato «al dovere di vivere»: materialmente è così, se fingendo di non sentire ciò che ti sta urlando tua madre continui a leggere seduto in terrazza, vicino alla pianta di alloro; ma potremmo ugualmente dire che la lettura, in termini di decifrazione dei tuoi segni e di quelli degli altri, è senza dubbio parte del tuo essere al mondo, che come per la scrittura non si traduce in una rigida disciplina, ma in una dedizione affettuosa e costante per ciò che stai facendo, anche alla luce di un’altra nota considerazione che si trova ribadita nello stesso libro: «L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale».
Continueranno, senza dubbio, a coesistere diverse forme di lettura, e così i barthesiani testi di piacere e testi di godimento, ma ciò che le modalità di fruizione digitale ci impongono personalmente di ricordare sono due operazioni abituali: l’attenzione al riscontro testuale e una ricostruzione accurata, per quanto possibile, del contesto (l’attenzione alle emoticon, anche quando non ci sono). Se la lettura sia necessità o dovere, passione o vizio, non è definibile a priori. Anche per questo va condotta con l’opportuna intensità, non semplicemente scorrendo gli occhi sullo schermo come facciamo scorrere la punta delle dita su una ringhiera. Bisogna riconoscere quale tipo di testo sia. Vale ancora il vecchio adagio per cui dobbiamo leggere come se il testo incarnasse «una vera presenza dell’essenza significante».
La lettura mostra come poche altre attività la nostra considerazione per l’altro e per ciò che costruiamo per noi e per gli altri. Come ha detto Wittgenstein con memorabile icasticità: «intendere è come dirigersi verso qualcuno».
Poi, certo, oltre a leggere dobbiamo anche scrivere la nostra pagina.
Nota
Di seguito i testi citati. Sulle rilevazioni sulla lettura Ocse-Pisa, I. Ventura, Solo un quindicenne su venti distingue tra fatti e opinioni, «La Repubblica», 3 dicembre 2019 (sui questi dati è poi scaturito un dibattito: segnalo nel merito l’articolo di M. Piras, I dati Ocse-Pisa 2018: come sta la scuola italiana, e che cosa fare, «Il Sole 24 Ore», 13 dicembre 2019, reperibile on line sul sito del quotidiano); V. Woolf La lettura in Come si legge un libro?, Milano, Baldini & Castoldi, 1999, le citazioni si trovano alle pp. 46 e 87; Bret Easton Ellis, Bianco, Torino, Einaudi, 2019; Martin Amis, Esperienza, Torino, Einaudi, 2002; F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, Milano, Adelphi, 1979; sui racconti come genere meno letto sulle riviste on line, G. Mazzoni, G. Simonetti, Salutando. Un editoriale di congedo, «Le parole e le cose», rivista on line: www.leparoleelecose.it, 10 gennaio 2019; sul prosumer e gli User Generated Content, R. A. Ventura, Teoria della classe disagiata, Roma, Minimum fax, 2017, cap. 4, pp. 126-160; Roland Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975; R. A. Ventura, La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi, Roma, Minimum fax, 2019: le due citazioni si trovano, quella breve a pp. 102-103; l’altra alle pp. 103-104 (il corsivo è dell’autore); M. Proust, Il piacere della lettura, Milano, Feltrinelli, 2016: le due citazioni si trovano a pp. 39-40 e a p. 42; D. Pennac, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1993: le due citazioni si trovano a p. 99 e a p. 139; sulla vera presenza dell’essenza significante, G. Steiner, Nessuna passione spenta, Milano, Garzanti, 2001, p. 45; il passo di L. Wittgenstein si trova in Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 2014: n. 457, p. 154. (wn)