Paolo, il rivoluzionario

Rifiutai e basta, perché non me la sentivo di tirar pietre a niente e a nessuno, perché avevo paura, e glielo dissi. Fu allora che Paolo ebbe uno strano ghigno: – Tu non farai nessuna rivoluzione, e finirai col diventare un bravo borghese come tuo padre, come tanti altri.

Giuro che ancora oggi, a distanza di trent’anni, quando ci ripenso, quelle parole mi indispettiscono quasi quanto allora, forse perché borghese sono diventato davvero, ho una famiglia, dei figli, e lavoro per me e per loro; ed in effetti non ho mai fatto alcuna rivoluzione. Ma forse non è questo il senso che davamo allora alle parole borghese e rivoluzione. Si dirà che quella di Paolo era una facile profezia, ma non lo credo, dal momento che a sedici anni non è per nulla facile pensare a come si diventerà a quaranta.

Spiovve. Paolo andò via, nel modo che ho detto, con quel suo passo svogliato e incauto, negligente e azzardato a un tempo, entrando nelle pozzanghere e camminando alla destra dei pali della pubblica illuminazione, sporcandosi e bagnandosi le scarpe con grande noncuranza. Il cielo era ancora carico di nubi nere e di lì a poco avrebbe ricominciato a piovere. Da quel giorno i miei rapporti con Paolo si intiepidirono fino a cessare quasi del tutto.

Qualche tempo dopo lo andai a trovare a casa. Fu quando tra gli amici si seppe che, finito il liceo, Paolo non si sarebbe iscritto all’università. Egli si rifiutava di parlare con chicchessia e non usciva più da casa. Si diceva che avesse l’esaurimento nervoso.

Sua madre mi fece entrare, accogliendomi con un breve sorriso, come se in me vedesse incarnata un’ultima speranza. Ma questo l’avrei capito solo dopo. Nell’ingresso della casa popolare una fioca luce penetrava da una finestrella di plexiglas che s’apriva nel mezzo del soffitto. La madre disse piangendo che non sapeva più come comportarsi con suo figlio, che se ne stava tutto il giorno in camera, non leggeva, non studiava, non ascoltava nemmeno la sua musica preferita, non faceva nulla, neppure usciva per prendere una boccata d’aria o per procurarsi il cibo. Lei glielo doveva portare in camera, perché non morisse di fame; Paolo metteva solo in ordine la sua stanza, rifaceva il letto e spolverava i mobili e gli oggetti in continuazione, disse la madre, e ne usciva solo per andare nel bagno; guardava distrattamente la televisione, senza scegliere i programmi, indifferentemente.

Non sapevo che dire e mi sentivo molto in imbarazzo. Mi fece entrare nella stanza di Paolo e ci lasciò soli.

Mi sembra di rivederla ancor oggi, la camera di Paolo, e ancor oggi ci ripenso non senza una certa inquietudine. Era straordinariamente ordinata e pulita, il che ancor più risaltava agli occhi del visitatore, perché in quel momento la illuminava la luce intensa del tramonto che filtrava attraverso la cortina della tenda bianca. Se dovessi paragonare a qualcosa quella stanza, penserei ad un ambulatorio, ad una sala operatoria sterilizzata, giacché anche un sentore come d’ospedale si avvertiva nell’aria. Pochi libri disposti con cura nei ripiani sopra il letto facevano bella mostra di sé, e nell’angolo era visibile il mobiletto dello stereo, richiuso, senza un granulo di polvere che ne sporcasse il coperchio. Il letto era stato ben rifatto, come dalla meticolosa ed esperta mano di una cameriera d’albergo. Quella camera così linda e pulita destava il sospetto che fosse il risultato asettico di una cura maniacale, non d’un normale desiderio di ordine e di pulizia. Chiunque nella stanza di Paolo si sarebbe sentito a disagio e mai avrebbe potuto usare le cose, ma solo esserne suggestionato e dominato.

Stava seduto su una poltrona, il collo curvo sul petto, lo sguardo reclino, le mani giunte tra le ginocchia: sembrava raccolto in meditazione o in preghiera. Al mio ingresso, sollevò lentamente lo sguardo, inarcando i sopraccigli lunghi e sottili, come destandosi da uno stato catatonico nel quale a lungo fosse giaciuto, e mi disse bruscamente: – Che vuoi?

Un po’ infastidito per l’accoglienza fredda e scortese, gli risposi che ero lì per salutarlo, per avere sue notizie, per rivederlo prima di partire per l’università.

– Non voglio vedere nessuno. Non siamo più bambini.

Capii allora che inequivocabilmente Paolo mi era ostile. Mi feci forza e gli chiesi il motivo per il quale si era rinchiuso in casa e non usciva più.

– Non m’importa più di nulla.

Questa fu l’ultima frase terribile che io gli udii pronunciare. Me la ricorderò sempre, perché anch’io ebbi modo di ripeterla a me stesso, più e più volte, nel corso della giovinezza, sempre dopo ognuna della mie delusioni. Ma a me questa frase – non m’importa più di nulla – , avrebbe dato la forza di sopravvivere, di andare avanti, come fosse la formula magica capace di salvarmi da qualche pericolo e mettermi in guardia contro ogni inganno dell’esistenza; se non altro perché dalla constatazione della morte del mondo fantastico che mi ero creato e in cui avevo creduto mi sarebbe derivata la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire la mia vita, quale piega avrebbe preso, e il proposito di raccontare tutto ciò a chi avesse voluto ascoltarmi; senza avere intenzione di stupire, ma come un testimone che ripete la verità dei fatti accaduti, e finalmente se ne libera e non ci pensa più. Ma quelle parole – non m’importa più di nulla – Paolo le intendeva in un altro modo, in un modo perverso e masochistico: egli infatti salvava e abbelliva le cose intorno a lui, rendendole intangibili, e annichiliva se stesso. E mi stupivo ancora una volta che Paolo il rivoluzionario, che tre anni prima entrava nelle pozzanghere sporcandosi indicibilmente come un bambino, lui che senza esitare avrebbe tirato pietre contro le finestre della scuola perché voleva cambiare il mondo, ora puliva il suo ritiro fino a farlo brillare, e spolverava le sue cose a tal punto da renderle intoccabili ed inutilizzabili, rivolgendo contro di sé quella violenza sottile e impercettibile che sfigurava la sua giornata di recluso in un’asfittica sebbene pulita e linda camera di una casa popolare.

Paolo non andò all’università e non volle mai saperne di lavorare. Rimase nel chiuso della sua stanza, guardando la televisione e negandosi a quanti, me compreso, suonassero il campanello di casa per fargli visita. Poi un giorno, qualche anno fa, lo rividi in giro per le strade del paese e cercai di fermalo. Ma lui insisteva irragionevolmente nel dire di non conoscermi, di non avermi mai conosciuto. Lo rivedo qualche volta ancora oggi, per strada, che cammina come allora, in modo dinoccolato, solo un po’ appesantito dagli anni e dall’inattività, e nella sua svogliatezza non c’è più nessun azzardo, ma solo un abbandono senile, uno svagato sguardo al mondo circostante, come intravisto con noncuranza nello schermo di un televisore.

[1999]

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