di Gianluca Virgilio
Mi salutò distrattamente e si incamminò lungo la strada che lo portava a casa, mentre continuavo a guardarlo da lontano come per capire meglio il senso della mia risoluzione. Aveva un modo dinoccolato di camminare, oltre il ciglio della strada, alla destra dei pali della pubblica illuminazione, incurante delle pozzanghere che s’aprivano nel terreno non asfaltato del sobborgo cittadino.
Quel pomeriggio era caduta una pioggia battente. Avevamo rivisto le bozze del volantino, che l’indomani avremmo diffuso in occasione dello sciopero studentesco. Ce ne stavamo in camera mia, in attesa che spiovesse. Ma sentivo che Paolo mi taceva qualcosa, perché nel suo sguardo era insorta una certa diffidenza nei miei confronti, che mi faceva supporre in lui chissà quale pensiero inespresso. All’improvviso, vincendo la sua diffidenza, mi disse: – Col volantino e con lo sciopero non otterremo un bel niente, dobbiamo almeno rompere i vetri della scuola.
Paolo aveva pronunciato quelle parole con una freddezza e una determinazione che veramente mi stupirono e mi spaventarono. Allora credevo di conoscerlo bene, perché ci frequentavamo fin dai tempi della scuola media: imitavamo i più grandi, gli studenti politicizzati delle scuole superiori e gli universitari, con la serietà di chi gioca a fare l’uomo adulto. Da non poco tempo, dunque, parlavo di rivoluzione con Paolo, ma l’idea di commettere qualche violenza non mi era mai venuta in mente. Paolo mi stava proponendo di passare dalle parole ai fatti. Rifiutai.