Allora non si può escludere, anzi è molto probabile, che nei vent’anni che verranno, la trasformazione della conoscenza e delle competenze che ad essa sono collegate, si verifichi con la stessa, oppure più intensa, rapidità. Non tanto o non solo per quanto riguarda la dimensione digitale, ma per qualcosa che, ancora una volta, pochi riescono a immaginare.
Forse avremo bisogno di nuovi linguaggi e di nuovi strumenti per leggere ed interpretare i fenomeni dell’universo. Forse cambierà anche lo stesso concetto di universo. Forse avremo altre forme di organizzazione sociale, di politica, di economia. Attribuiremo altri significati alle parole globale e locale.
Avremo un’altra geografia, una diversa idea della storia, una diversa espressione della cittadinanza, diverse modalità di lavoro. Forse da qualche parte ci arriveranno altre verità e altre menzogne. Si configurerà per noi un altro immaginario. Certamente avremo altre domande da farci, altre risposte da cercare, e le risposte ci serviranno soltanto parzialmente e soltanto per poco, per quel poco tempo che il sapere sarà in un certo modo mentre diviene diverso, rielaborato e riformulato e riconfigurato dalla sua metamorfosi incessante.
Allora sembra che nessuna conoscenza potrà avere una durata tale da consentire di approfondirla. Sarà sempre, inevitabilmente, conoscenza dell’ultimo momento, un posto trovato casualmente nella carrozza di un treno. Sembra che non si potrà più confidare in quella che si chiamava – che in qualche caso ancora si chiama – “solida conoscenza”, che valeva per quanto durava la vita, ma che ogni sapere sarà liquido, fluttuante, destinato ad una rapida evaporazione.
Mancheranno quelli che si dicono punti fermi, riferimenti essenziali. Oppure esisteranno ma saranno diversi, al momento completamente sconosciuti.
Ma in fondo è stato sempre così. I mutamenti culturali sono sempre avvenuti. Le mentalità e le visioni del mondo sono sempre cambiate. La sola differenza è che fino ad un certo punto sono avvenute con processi che avevano un tempo tale da consentire di comprenderle nella loro sostanza. Adesso la tecnica e la tecnologia strizzano il tempo come uno straccio.
Forse l’esempio che si faceva della dimensione digitale, può avvertirci, farci capire che non sarà possibile farsi sorprendere impreparati. Avremo bisogno di una scatola di cerini.
C’è una poesia di Raffaello Baldini, scritta nel suo dialetto di Romagna, che s’intitola “Un ziréin”, un cerino, da cui prende il titolo “Un cerino nel buio” un libro di Franco Brevini del 2008, che per sottotitolo ha “Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbari”.
Dice di un uomo che in una notte di vento accende un cerino per orientarsi nel buio. Ma il cerino si spegne, ed era l’ultimo della scatola, così si ritrova tra le pozzanghere gelate, senza vedere dove mette i piedi, senza capire in che direzione andare per trovare la compagnia di amici che lo aspetta.
Avremo bisogno di una scatola di cerini, allora, per poter vedere dove mettiamo i piedi, se per caso tutt’intorno sarà soltanto il buio dell’incertezza o dell’incognita. I cerini sono i saperi essenziali: quelli che resistono alle trasformazioni. Anzi, quelli sui quali si fondano le trasformazioni, che le governano. Conoscenze plurali, trasversali, integrate, capaci di porsi criticamente e creativamente nei confronti delle nuove culture. Saranno gli elementi fondamentali dei linguaggi, i fondamentali delle arti, delle scienze. Saranno competenze disciplinari indispensabili per qualsiasi apprendimento, quelle che si possono considerare appunto come punti di riferimento, come “solide conoscenze”, in quanto imprescindibili in qualsiasi contesto, in quanto strutture sulle quali ogni innovazione deve collocarsi, inevitabilmente.
Ma anche nel riferirsi alla solidità delle conoscenze, si dovrà necessariamente rendersi disponibili ad una loro continua rideterminazione, riformulazione, ad una loro applicazione in contesti e situazioni che non appartengono ai territori disciplinari dai quali esse provengono: bisognerà saperle impiegare in modo diverso. Si potrebbe anche dire in modo creativo, se non fosse per il fatto che molto probabilmente anche il concetto di creatività avrà un significato completamente diverso da quello che conosciamo. Forse la creatività soggettiva dovrà integrarsi e interagire con una creatività collettiva; forse sarà orientata verso l’arte, verso la scienza. Forse servirà creatività soprattutto per la sopravvivenza. Magari dovremo imparare a non farci spegnere il cerino dal vento, nel caso dovessimo ritrovarci con un cerino solo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 5 gennaio 2020]