Di mestiere faccio il linguista 28. La punteggiatura

Quando parliamo introduciamo pause, inflessioni, toni di voce che facilitano la comprensibilità di quanto diciamo da parte di chi ascolta. A scopi analoghi risponde la punteggiatura nei testi scritti. L’insieme dei segni ortografici (variabile nel tempo) serve a indicare sia la struttura delle proposizioni e dei periodi (coordinazione e subordinazione dei concetti) sia l’intonazione e le pause da osservare nella lettura. In sostanza, la punteggiatura aiuta chi scrive ad esser chiaro e facilita chi legge nella comprensione del testo. Anche se non si pronunzia ad alta voce lo scritto che leggiamo. Per noi è scontato che la lettura individuale sia silenziosa, di norma leggiamo in silenzio. Nell’antichità non era così. Le Confessioni di Sant’Agostino di Ippona sono un capolavoro della letteratura cristiana antica; nell’opera, scritta intorno al 400, quel padre della Chiesa narra la sua vita e in particolare la storia della sua conversione al Cristianesimo. In un passo molto noto descrive lo stupore ammirato che lo colse nell’osservare un fenomeno sino ad allora ignoto alla sua esperienza intellettuale: Sant’Ambrogio leggeva in perfetto silenzio. Intimoriti, Agostino e altri discepoli entravano nella sua stanza e sedevano senza un sussurro, cercando di spiegarsi la stranezza di quella lettura mentale silenziosa, che prima di allora non avevano mai visto. Ecco il brano di Agostino: «Nel leggere, i suoi [di Ambrogio] occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente. Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa?».

L’intensa applicazione alla lettura che Agostino attribuisce ad Ambrogio richiama alla mente un episodio di alcuni secoli dopo (agli inizi del secolo XIV), protagonisti questa volta non due santi ma due grandissimi letterati. Boccaccio riferisce che Dante, trovandosi un giorno a Sie­na, avendo rinvenuto in una bottega un libro molto famoso «da lui giammai veduto» (e di cui da tempo era in cerca), cominciò «cupidissimamente» a leggerlo sulla panca stessa che era davanti alla bottega, da mezzogiorno al tramonto, senza accorgersi dei «gran­dissimi romori da’ circustanti, dei balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani» che avevano luogo proprio dinanzi a lui. Solo a lettura completata sollevò gli occhi dal libro. E quando alcuni gli chiesero perché mai non avesse degnato neppure di uno sguardo una così splendida festa, rispose che non aveva sentito niente, immerso nella lettura. Provocando naturalmente un’ulteriore, ancor più grande, meraviglia in coloro che lo interrogavano.

In altri casi famosi è evidente la dimensione collegata all’esecuzione orale del testo: la pagina scritta non è autonoma, pertanto è necessario che adeguati segni di punteggiatura facilitino chi legge nella comprensione del testo, tanto più se quel testo deve essere pronunziato ad alta voce. Lo sapeva benissimo Aristotele, alcuni secoli prima di Cristo. In un brano della Retorica Aristotile sottolinea le difficoltà interpretative generate dalla carenza di punteggiatura: «In generale, occorre che il discorso scritto sia facile da leggere e da pronunziare, il che è la stessa cosa. Non possiedono questa qualità le composizioni in cui ci sono troppe congiunzioni e neppure le frasi in cui non è facile inserire la punteggiatura. come quelle di Eraclito. Introdurre la punteggiatura nelle frasi di Eraclito è una fatica poiché non è chiaro a quale termine una parola si riferisca, se al successivo o al precedente, come all’inizio del suo scritto».

Nello specifico Aristotele se la prende con il malcapitato Eraclito di Efeso (VI-V secolo a. C.), citando le pagine in cui questi enuncia per iscritto la dottrina del logos. Le frasi sono difficili da comprendere perché non è chiaro a quale termine una parola vada collegata, se al precedente o al successivo. «Dice infatti. “Di questa ragione ch’è [vera] sempre gli uomini non hanno comprensione”. Non è chiaro infatti a quale dei due termini il “sempre” debba essere connesso con la punteggiatura». In effetti non si capisce se l’avverbio vada riferito alla parola che precede o a quella che segue. A seconda di dove si colloca la virgola, cambia il significato dell’intera frase: «Di questa ragione ch’è [vera] sempre, gli uomini non hanno comprensione» oppure: «Di questa ragione ch’è [vera], sempre gli uomini non hanno comprensione». Lo spostamento di una virgola cambia tutto.

Un aneddoto che dimostra la stessa cosa ci riferisce il cronista medievale Alberico delle Tre Fontane (sec. XIII). Racconta che al soldato che interrogò la Sibilla prima di una battaglia fu risposto: «Ibis redibis non morieris in bello» (scandendo le parole una dopo l’altra, con pause sempre uniformi). Il soldato ne fu al momento tranquillizzato, avendo interpretato «Andrai, ritornerai, non morirai in guerra». Invece morì, non ritornò, perché la profezia poteva essere interpretata anche «Andrai, non ritornerai, morirai in guerra», collegando il «non» al precedente «redibis» (cioè ‘non ritornerai’), invece che al seguente «morieris» (e, di conseguenza, ‘morirai’). È un esempio limite dell’importanza della punteggiatura. Cosciente della necessità di risalire alla genuinità di una tradizione scritta, fino alle sorgenti, e delle possibili estreme implicazioni legate al variare della scrittura del Nuovo Testamento, Erasmo da Rotterdam si chiedeva nel 1516: «Cosa c’è di più minuscolo di una virgola? Eppure così poco basta per produrre un’eresia».

Non sempre l’uso maldestro o improprio della punteggiatura comporta conseguenze così drastiche. Ma sempre, in tutti i casi, bisogna badare all’interpunzione quando scriviamo, se vogliamo farci capire. Consapevoli di questa necessità nel Medio Evo, ripetutamente, i redattori di trattati sollecitano la messa a punto di un sistema d’interpunzione adeguato alla realtà linguistica rappresentata per iscritto. Con differenze tra un grammatico e l’altro, com’è naturale: esistono infatti larghe coincidenze ma anche variazioni nelle denominazioni, nelle modalità di realizzazione grafica e nelle funzioni attribuite ai singoli segni. Ma comune è lo scopo. I trattati, nelle intenzioni di chi li compone, hanno una funzione fondante e organizzatrice: mettono ordine in un universo ancora votato al caso o a eredità spontanee, proponendo una sistemazione dottrinale e una pratica applicativa tendenzialmente unitarie.

Il processo di sistemazione della punteggiatura non è rapido, richiede secoli. Solo ai primi del Cinquecento nasce il sistema moderno di punteggiatura, quello arrivato fino a noi. La prossima puntata vedremo alcune tappe di un percorso affascinante.                                                                                                                                             [“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 5 gennaio 2020]

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (terza serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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