di Adele Errico
La scrittura di Antonio Prete sa di nostalgia. Sa della dolcezza di un ricordo che, però, è pur sempre un ricordo, quindi appartiene ad una dimensione lontana ed è amaro, doloroso. La scrittura di Antonio Prete sa del desiderio di Ulisse di rivedere Penelope lontana, seppur tra le braccia di Calipso – che di Penelope è certo più bella – ma non è lei, non ha i suoi occhi, non ha la sua voce. E’ assenza nella presenza, distanza nella prossimità, invisibile nel visibile, è quel “cielo di stelle spente” dell’ultimo verso della poesia che viene ripresa in copertina di “Tutto è sempre ora”, la raccolta di poesie pubblicate da Einaudi.
La raccolta di poesie – il cui titolo rimanda a un verso dei “Quattro quartetti” di T. S. Eliot – indaga un tempo della vita che va oltre la distinzione tra passato, presente e futuro. In ogni istante le tre dimensioni si sovrappongono, intrecciano, intersecano. E poi se ne aggiunge una quarta. Il non vissuto, il non accaduto. Non nel senso di futuro, ma di qualcosa che si sarebbe voluto ma non è stato, che è stato perduto ma non è neanche esistito, il rimpianto dell’inesistente, la nostalgia dell’ignoto. In un’esplosione di sinestesie, le poesie di Prete narrano scorci di ricordo, stralci di paesaggio, momenti consumati in luoghi diversi, in stagioni diverse – inverno a Verucchio, dicembre, Otranto, New York, la luce di Lisbona, la sera di Colonia -, visioni che non appartengono allo sguardo, ma al pensiero, strascichi di un ricordo che, leopardianamente “lontanando”, muore a poco a poco. Il poeta guarda e sente e, in una sezione della raccolta intitolata “Lengua mara”, sente in quella che Prete stesso definisce la “lingua della madre”: è la lingua della culla, la lingua delle nenie, quella del cuore, quella dell’irrazionale, del sentimento, quella originaria. Le poesie di questa sezione sono in dialetto salentino, la lingua della terra in cui l’autore è nato, quella terra in cui “Il battito qui dei pensieri è prossimo al respiro degli ulivi”.
Il mondo, nei versi di Antonio Prete, è una “bolla gonfia di niente”: le voci si disperdono, le donne sono d’aria, d’aria la strada, d’aria l’amore, d’aria il desiderio. Sono d’aria i volti nelle strade affollate, ombre che si confondono, figuranti di quella messa in scena che è il teatro del mondo. Passanti. Come d’aria è lo sguardo della passante che ne “I fiori del male” di Baudelaire – nella traduzione di Prete – è “bellezza fuggitiva”: nell’incrociare quello sguardo si realizza proprio la nostalgia di quello che non è mai esistito, di un amore che, magari, poteva essere e non è stato. L’ultima sezione della raccolta – “Dell’apparenza (prosa d’inverno)” – è dedicata a brevi brani in prosa. In chiusura, un brano dal titolo “L’elevazione”: un funambolo percorre leggero una corda tesa su un tappeto di persone. Il tempo si ferma, la folla trattiene il respiro. Quando il funambolo giunge a metà percorso una luce illumina il suo volto. Prete non descrive quel volto. Forse possiamo immaginarlo: è il volto di chi sulla corda, come nella vita – come tutti, nella vita – è in equilibrio. Stupito, teso, preoccupato, sollevato. Ma a metà percorso, in alto, in equilibrio, comunque appaia il suo volto, “il funambolo continuava il suo cammino”.