Continua il definanziamento dell’istruzione e della ricerca

Si calcola, a riguardo, che la spesa pubblica per ricerca e sviluppo in Italia è inferiore, nel 2019, alla spesa che lo Stato italiano sostiene per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico. Eurostat certifica che nel 2017 l’Italia ha speso circa 66 miliardi di euro per l’istruzione pubblica (pari a circa il 3.8 del Pil) e che nessuno Stato membro dell’UE si trovava quell’anno in una simile condizione. Inoltre, dal 2011 al 2016 l’Italia sempre speso di più per il pagamento di interessi sul debito rispetto a quanto ha speso per l’istruzione: solo nel 2017 la spesa per istruzione ha eguagliato quella per il pagamento degli interessi sui titoli di Stato. La riduzione della spesa pubblica per ricerca e sviluppo contribuisce a ridurre il tasso di crescita, per effetto del suo impatto sul tasso di crescita della produttività del lavoro, con conseguente riduzione della solvibilità e dunque della credibilità dello Stato italiano. A ciò fa seguito un aumento dei tassi di interesse che lo Stato deve ai sottoscrittori dei titoli del debito pubblico.

Vi è di più:

  1. Il definanziamento relativamente maggiore delle Università meridionali impedisce a queste ultime di assumere un numero adeguato di giovani ricercatori. Il conseguente invecchiamento del corpo docente (età media di 55 anni, a fronte dei 34 anni della media europea) contribuisce a erodere la qualità dell’insegnamento, che diventa sempre meno innovativo e sempre più ripetitivo. I ranking periodici delle sedi contribuiscono, a loro volta, a rendere sempre più attrattive le sedi del Nord rispetto a quelle del Sud, con effetti a cascata sulle migrazioni di giovani dal Sud al Nord e anche di docenti dal Sud al Nord.
  2. La sostanziale assenza, soprattutto nel Mezzogiorno, di una robusta struttura industriale (con l’eccezione di alcuni poli localizzati nelle aree che gravitano intorno a Napoli e a Bari), fa sì che, soprattutto nelle regioni meridionali, la domanda di lavoro espressa dalle imprese sia prevalentemente domanda di lavoro poco qualificato.

A ciò va aggiunto che per troppi anni, nell’accademia italiana, si è sedimentata la convinzione che tutto ciò che attiene alla ricerca scientifica vada valutato secondo parametri oggettivi o comunque resi tali da decisioni non democraticamente controllate assunte dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR). Ne è derivata un’attitudine conformista che, nella ricerca, nuoce a qualunque possibile avanzamento dello stato delle conoscenze, nuoce al pensiero critico e, nella sfera della produzione, nuoce alle potenzialità dei giovani di applicare le loro conoscenze per produrre innovazioni. Al di fuori della torre d’avorio dell’Università e in larga parte del mondo imprenditoriale, per contro, è diffusa la convinzione per la quale i nuovi processi produttivi richiedono un sapere interdisciplinare, non omologato, soprattutto in un Paese – l’Italia – che stenta a intercettare le innovazioni provenienti dalla cosiddetta quarta rivoluzione industriale (o Industria 4.0).  

Le politiche per l’istruzione si possono inquadrare nell’ambito di un problema più generale dell’economia italiana, problema che si è manifestato a partire dalla fine del ‘miracolo economico’ e che riguarda essenzialmente l’individuazione di strumenti di politica economica tali da consentire alle imprese di competere attraverso compressione dei costi. Negli ultimi anni, le politiche formative sono state anche declinate per questo fine. E’ tuttavia da segnalare uno iato fra obiettivi desiderati e obiettivi conseguiti. Le riforme, infatti, sono state pensate per accrescere il numero di laureati e per accrescere la loro ‘occupabilità’: ma, a fronte di questo obiettivo dichiarato, l’obiettivo raggiunto è stato, per contro, ridurre il numero di laureati.  

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