La questione è complessa, lo capiamo meglio se paragoniamo la nostra lingua ad altre vicine. In altre lingue l’accento grafico fornisce una varietà di informazioni, per scopi differenti. Abbiamo visto prima la situazione dello spagnolo. Nel francese si pongono accenti differenti perfino in forme diverse dello stesso verbo: l’infinito régner ‘regnare’ ha l’accento acuto (per indicare che la vocale è chiusa) e il presente (je) règne ‘(io) regno’ ha l’accento grave (per indicare che la vocale è aperta).
L’italiano fa un uso più parco dell’accento, l’obbligo di segnarlo ricorre in un numero limitato di casi. L’accento deve essere segnato in fine di parola sui polisillabi tronchi (verrò, partirà) e su quei monosillabi che rischierebbero di confondersi con altre parole che si scrivono allo stesso modo (i linguisti dicono che sono omografe): è (verbo) ~ e (congiunzione), dà (indicativo di dare: «questa zanzara mi dà fastidio») ~ da (preposizione: «resto da solo»), tè (bevanda: «una tazza di tè») ~ te (pronome: «ascolto solo te»), ecc. La nostra lingua conosce tre tipi di accento: grave (ˋ), acuto (ˊ) e circonflesso (ˆ). Accento grave e acuto sono obbligatori, si usano il primo per indicare è ed ò aperte (caffè; mangiò), il secondo é ed ó chiuse (né, perché; córso). Attenzione. Le vocali dell’italiano orale sono 7 non 5 (come comunemente si crede), ci sono due timbri di e (aperta e chiusa) e due timbri di o (aperta e chiusa); nello scritto si usano solo 5 segni grafici. Non si spaventino i salentini che parlando o ascoltando non sanno distinguere le vocali aperte dalle chiuse. La distinzione è tipica della Toscana, da lì è passata nel parlato standard, quello dei grandi attori di teatro (Albertazzi, Bene, Gassmann e altri). La distinzione toscana è sconosciuta ai parlanti di altre regioni (quelli del sud estremo, in particolare). Ma non è un impedimento grave. Nel parlato possiamo fare a meno della opposizione tra vocali aperte e vocali chiuse, la comunicazione passa ugualmente. Al contrario dell’accento grave e acuto, quello circonflesso non segnala un fatto fonico, è facoltativo, di impiego rarissimo e ormai desueto: nessuna grafia comporta l’accento circonflesso obbligatorio, chi lo usa lo fa per preferenza personale. Viene a volte usato nel plurale degli aggettivi e dei nomi in –io: un tempo si scriveva varî (o anche varii) come plurale di vario, principî (o anche principii) come plurale di principio (e serviva anche per distinguerlo da principi plurale di principe). Ma si tratta di grafie un po’ fuori moda, quasi nessuno le usa più. È normale. La lingua cambia nel tempo, cambiano uso e norma linguistica, ormai lo sappiamo.
Pur se mancano regole rigide, a volte si sente il bisogno di ricorrere all’accento per disambiguare le parole che si scrivono allo stesso modo ma hanno significati diversi: «i rimproveri possono essere benèfici» ~ «fare sport comporta benefìci fisici»; «queste è una lotta ìmpari» ~ «così impàri a tue spese!», «gli amici mi pàgano una birra» ~ «il mondo pagàno». Su “Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 6 novembre 2016, p. 3, trovo il titolo: «Taranto, 860 milioni in cassa. Il Patto volàno per la svolta. Secondo il report, il contratto con il governo inciderà sulla crescita». Sotto la foto del ponte girevole tarantino, la spiegazione: «Per Taranto è prevista una crescita annua del 2% sino al 2020, superiore a quella del 5,44% stimata per la provincia in quattro anni». Il titolo mette l’accento su volàno, qui usato in senso metaforico ‘elemento che può favorire lo sviluppo’, per distinguere questa parola dal verbo vólano: «gli uccelli vólano».
Le ambiguità aumentano quando si tratta di parole poco ricorrenti o poco conosciute, di città e stati lontani, di alcuni cognomi. Nel servizio di consulenza dell’Accademia della Crusca (www.accademiadellacrusca.it) Paolo D’Achille, che insegna a Roma 3, così risponde al quesito se si debba dire Ucràina o Ucraìna, ucràino o ucraìno (quasi mai nello scritto queste forme vengono accentate): «Molti si pongono questa domanda, specie dopo la grave crisi nei rapporti di questo Stato con la Russia. Del resto, non è che uno dei tanti problemi di accentazione dei polisillabi che affliggono o caratterizzano l’italiano di oggi (guaìna sarebbe più corretto di guàina e diàtriba di diatrìba, ma chi usa la forma corretta può facilmente passare per uno che sbaglia!) e che non di rado riguardano proprio i toponimi (Benàco pronunciato Bènaco, Belìce pronunciato Bèlice) Gli spostamenti dell’accento di parola sono in genere un tipico fattore dell’evoluzione delle lingue (noi diciamo cadére ma i latini dicevano càdere, diciamo rìdere e loro dicevano ridére). Per quanto riguarda i nostri due nomi (e aggettivi) va detto subito che oggi sono accettabili entrambe le pronunce, anche se la più corretta, a rigore, sarebbe quella in passato spesso ritenuta sbagliata, cioè quella con l’accento sulla i».
Oscillazioni sono frequenti. Sento pronunziare indifferentemente come Bìrago o Biràgo la via ove si trovano gli edifici del Dipartimento di Beni culturali del nostro Ateneo. L’intitolazione ricorda Dalmazio Birago, un aviatore alessandrino caduto ventisettenne nel cielo di Amba Alagi durante la guerra di Etiopia. Birago (con accento sulla à, Biràgh in dialetto) è una piccola località della Brianza ove nacque Giovanni Pietro Birago, miniatore lombardo che godette del favore di Bona Sforza, regina di Polonia e duchessa di Bari. In Salento la doppia pronunzia è giustificabile: la località lombarda, il miniatore rinascimentale, l’aviatore caduto in guerra sono piuttosto estranei alle conoscenze dei salentini, che non possono conoscere la storia di cognomi e di località così remoti.
Ma non sempre si tratta di scarsa conoscenza. Il cognome dell’attuale ministro dell’Economia viene pronunciato Pàdoan anziché Padoàn, come suggerisce l’etimologia (nasce da Padovano, in veneto Padoàn). Nei primi mesi di vita del governo Renzi alla televisione e alla radio le due pronunce (Pàdoan e Padoàn) si alternavano; ma ormai prevale decisamente la prima, perché è stata indicata come quella corretta dallo stesso interessato, la cui famiglia, di origine veneta, si trasferì in Piemonte. Ecco un esempio analogo che riguarda il Salento. Qui è piuttosto diffuso il cognome Bray (Braj, Braì), pronunziato con l’accento sull’ultima (correttamente, secondo l’etimologia: deriva dal nome arabo Ibrahìm). Ma spesso viene pronunziato Brài (con accento su à) quando ci si riferisce a Massimo Bray, ex Ministro dei Beni culturali (di origine salentina), e l’interessato pare condividere.
Nei casi di possibile ambiguità nella pronunzia, possiamo ritenere decisiva l’indicazione proveniente dalle persone direttamente coinvolte? Non può sovvertire l’etimologia, questo è certo, ma può indicare una tendenza o una volontà. Torno al collega citato all’inizio che ha offerto lo spunto per questo articolo. Intenzionalmente mette l’accento sulla prima í del cognome (Símini, l’unico della famiglia a farlo) perché (testualmente) ci tiene «a rimare con Rimini e vimini», e per «facilitare il lettore (che a volte non se ne accorge e sbaglia)».
Quante cose si nascondono dietro quei microscopici segni grafici che chiamiamo accenti!
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 27 novembre 2016, p. 10]