Belfiore

Entrò il bidello, alto, corpulento, aiutante muto e ossequiente d’un potere smisurato e incontrastabile, da cui nessuno avrebbe potuto sperare pietà. Giulio accompagnò con lo sguardo Belfiore mentre seguiva quell’omaccione in presidenza, e fu uno dei pochi ad accorgersi (e certo non se ne accorsero il bidello e l’insegnante) che Belfiore, per nulla intimorita, faceva spuntare in un angolo della bocca una lingua appuntita: era la boccaccia destinata all’insegnante. Quel giorno non la rivide più.

Giulio sedeva al banco con Mario, un biondino di bassa statura e di corporatura esile, ma non gracile; la sua natura doveva essere molto orgogliosa se con nessuno aveva cercato di fare amicizia, e se ne stava sempre in un angolo, senza dare retta ai suoi compagni di classe, e trascorreva così la ricreazione e ogni cambio d’insegnante.

Una settimana prima Giulio lo aveva difeso da un compagno che lo provocava, e se ne era poi pentito, perché Mario non lo aveva neppure ringraziato e perseverava nel suo atteggiamento orgoglioso e distaccato. Alla fine Giulio aveva deciso di non considerarlo più un amico, e di lasciarlo la prossima volta al suo destino.

Ben altra importanza aveva per lui quella testolina coperta da capelli ricci, che era solito guardare dal suo banco! Nessuno sapeva del suo amore per lei, e il suo segreto doveva rimanere inviolato.

Un giorno Belfiore si era voltata, aveva visto Giulio che la guardava, e gli aveva sorriso. Giulio poi non ricordava più se avesse sorriso anche lui, oppure se il suo volto fosse rimasto immobile e inespressivo a causa dell’imprevisto incontro di sguardi. Giulio aveva gioito in cuor suo, anche se si pentiva di essere arrossito, e di aver distolto lo sguardo, come d’un atto di viltà. Aveva guardato per strada -il suo banco, difatti, era vicino alla finestra- e, a causa di questa gravissima infrazione, era stato rimproverato dall’insegnante d’Italiano; tutti avevano notato il suo improvviso arrossire, qualcuno aveva anche riso, ma nessuno, o quasi, aveva intuito la verità, e cioè che quella era stata la sua prima, muta dichiarazione d’amore. Allora, muovendo involontariamente la gamba destra, aveva toccato la sinistra di Mario che lo guardava muto e sornione e senza pensarci aveva accavallato la sua alla gamba di Mario, quasi a cercarne conforto, e Mario non si era mosso, e aveva mostrato di non stupirsi di nulla. In quella strana positura, certamente non comoda, senza essere visti, complici, erano rimasti fino alla fine dell’ora. Da quel momento Giulio e Mario divennero amici.

Quel giorno era in classe la prof d’italiano, Signora Pozzi, che i ragazzi chiamavano semplicemente Signora; tra i suoi difetti, grandi e piccoli, v’era anche questo: ella esigeva che gli sguardi di tutti gli studenti, da ogni punto dell’aula, dovessero convergere su di lei, sicché nessuna attività che abbisognasse dell’impiego della vista era consentita nelle sue ore. Non si poteva scrivere sul diario (se non quando l’insegnante dettava i compiti), né prendere appunti, incidere il proprio banco, meno che mai guardare fuori, oltre la finestra, per strada, dove la vita cittadina continuava in tono minore senza la presenza dei ragazzi. Insomma, bisognava avere sempre gli occhi puntati sul viso rosso e paffuto della Signora.

Giulio aveva trovato il modo di sfuggire alla norma senza farsi sorprendere. Dal suo banco lo sguardo di Giulio sembrava terminare, come quello di tutti i suoi compagni, sul volto rubicondo dell’insegnante d’italiano, risplendente d’una gran contentezza per la continua attenzione della classe, eppure con un’insospettabile e continua deroga. Nel mezzo tra Giulio e la prof, per la linea obliqua che correva invisibile tra il banco e la cattedra, lo sguardo del tredicenne innamorato aveva modo e tempo (quanto tempo!) di fermarsi sui capelli di Belfiore, e talvolta di indugiare sul di lei profilo, quando la ragazza, per dare ai suoi occhi un attimo di respiro, li volgeva impazienti dall’insegnante alle case o al cielo che si intravedevano oltre la finestra, con disappunto della Signora che non esitava a rimproverarla. Durante le ore di italiano, Giulio guardava Belfiore, e non la giuliva Signora Pozzi, ma né questa né quella se ne avvedevano. Il giorno in cui, come dicemmo, la Signora per la prima volta aveva rimproverato Giulio, ciò era accaduto perché Belfiore si era finalmente accorta che lo sguardo del suo compagno inequivocabilmente finiva su di lei, e non sulla professoressa, e ne aveva avuto conferma quando Giulio, intimidito, s’era voltato a guardare fuori dalla finestra ed era stato rimproverato. Quella giornata e quel rimprovero, furono veramente memorabili, perché contemporaneamente diedero origine all’amicizia tra Giulio e Mario, e rivelarono a Belfiore l’amore che Giulio provava per lei.

Durante le belle giornate d’inverno, le lezioni di educazione fisica si tenevano all’aperto nei giardini del cortile interno della scuola media. Era un edificio di epoca fascista, a pianta quadrangolare: nel cortile si accedeva da un corridoio centrale su cui si affacciavano la bidelleria, la segreteria, la presidenza, e la biblioteca; ai due lati dell’edificio sui larghi corridoi si aprivano le aule scolastiche; in fondo, al di là del cortile, di fronte al corridoio centrale, c’erano i laboratori di chimica e fisica, e la palestra coperta con spogliatoi annessi. Nel quadrato interno piantato a palme e a cespugli, nello stile imperiale degli anni Trenta, lungo gli stretti viali disselciati, l’insegnante di educazione fisica, il prof Primo, disponeva gli ostacoli per la corsa e altri attrezzi.

Giulio stava sempre insieme a Mario e non gli importava il carattere introverso del suo amico.

Nel salto in alto, a dispetto della sua bassa statura, Mario aveva ottenuto il risultato migliore e il plauso dell’insegnante, suscitando nei suoi compagni invidia e ammirazione, poiché nessuno avrebbe mai scommesso sulla bravura di quel ragazzetto magrolino. Quando si ritrovarono negli spogliatoi, sporchi e sudati, e Giulio si complimentò con Mario, questi sorrise intimidito, perché i compagni lo stavano osservando, e non disse nulla. Giulio allora lo strattonò con decisione, ripetendo entusiasta che era stato bravo, il più bravo, perché aveva superato tutti i compagni di classe, e meritava pertanto d’essere festeggiato. I compagni da quel momento smisero di guardarlo di malocchio, e tutti insieme elogiarono Mario per quel salto incredibile. Allora per la prima volta Mario si sentì uno di loro.

Durante l’ora di educazione fisica le ragazze erano rigorosamente tenute lontano dai ragazzi, e, accompagnate dall’austera e piuttosto attempata professoressa Terzi, si esercitavano nella palestra coperta, se i ragazzi erano fuori, oppure, se il maltempo non consentiva l’uscita, le ragazze rimanevano in classe e vi svolgevano lezioni teoriche, mentre i ragazzi occupavano la palestra coperta: questa era la regola.

Un giorno di pioggia, durante l’ora di educazione fisica, Giulio aveva chiesto di uscire dalla palestra per recarsi nel bagno, e aveva trovato nel corridoio, proveniente dall’aula, Belfiore, che, per una strana coincidenza, aveva chiesto anche lei il permesso di andare nel bagno. I servizi igienici dei maschi e delle femmine erano separati, ma contigui. Si erano salutati e avevano sorriso. Poi ognuno era entrato nel suo bagno. Nel gabinetto alla turca Giulio non pensò più di fare ciò per cui vi si era recato, ma si affrettò ad uscire per attendere nel corridoio Belfiore. Non sapeva neppure lui che cosa le avrebbe detto, e neanche se fosse riuscito a spiccicare parola davanti a quel viso tante volte vagheggiato, ma non gliene importava più nulla: troppo a lungo aveva atteso il momento di dirle che non pensava che a lei, che l’amava, che non avrebbe amato che lei, per tutta la vita.

Belfiore di lì a un interminabile minuto uscì coi suoi riccioli e coi suoi capelli a scalare, e vide dinanzi a sé Giulio rosso come un pomodoro. Gli disse: – Che ti è successo?

Giulio la guardava come rintronato da chissà quale sciagura presagita, scosso per la sua immancabile audacia. Sentiva la bocca arida e un insopportabile peso alla vescica che non aveva avuto il tempo di liberare. Si indispettì per il suo rossore, perché pensò che Belfiore l’avrebbe potuto scambiare per un sintomo di vergogna. Stava lì, impalato, senza parlare, e Belfiore lo guardava, e cercava di capire, e capiva, e sorrideva sorniona. E Giulio alla fine stava per balbettare non so quali parole d’amore, quando una voce greve tuonò nel corridoio interminabile della scuola, intimando un ritorno all’ordine, evidentemente infranto: era il bidello che gridava non potersi sostare nei corridoi senza un plausibile motivo. Giulio e Belfiore volarono via in direzioni opposte.

In palestra Mario gli disse: – Che ti è successo?

Giulio rispose che aveva incontrato Belfiore e che non era riuscito a fare pipì. Mario sorrise e gli disse che doveva tenersela fino alla fine dell’ora, perché il prof Primo non l’avrebbe lasciato andare al bagno una seconda volta.

[1999]

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