Forse per Susanna Tamaro non aveva ragione quel ragazzo col nome di Arthur Rimbaud quando nella sua “Chanson de la plus haute tour” diceva “par délicatesse j’ai perdu ma vie”: per delicatezza ho perduto la mia vita.
Per Susanna Tamaro la delicatezza è naturale condizione di vivere e di scrivere, perché tra di esse non c’è separazione: si compenetrano, si identificano. Sono ad un tempo ragione ed emozione, sensazione e riflessione, concretezza e astrazione, certezza e illusione. Una sillaba e un respiro sono la stessa cosa; lo sguardo e la parola sono la stessa cosa; un ritmo di frase è come un battito di cuore, una parola vale quanto un giorno per intero, una pagina può valere anche quanto tutta la vita.
La delicatezza è la radice profonda della scrittura di Susanna Tamaro. E’ il suo sentimento, la sua esperienza. La sua missione, la sua visione. Il suo esercizio quotidiano, la sfida esistenziale, la sua pedagogia e la sua psicologia, il metodo, il motivo, il movente dell’accostamento ad ogni creatura, ad ogni oggetto, ad ogni concetto, il codice genetico, la ricerca, l’esegesi, l’ermeneutica.
È la condizione che fa la differenza, che la rende riconoscibile, inimitabile.
La delicatezza per sé. Soprattutto per l’Altro. Per un incontro, per un addio.
Susanna Tamaro si pone con la stessa delicatezza nei confronti della prossimità e della lontananza, nei confronti di ogni corpo e della sua ombra, nei confronti del tempo, della Storia, del destino, di ogni situazione di realtà e di ogni finzione.
Adesso, a distanza di ventisei anni, si deve ammettere con onestà che quando è uscito Va’ dove ti porta il cuore, la mia generazione non lo ha capito: perché non poteva capirlo. Allora avevamo intorno ai trentaquattro anni, forse uno di meno, forse uno di più, e molte teorie che giravano nella testa. Per capirlo abbiamo dovuto lasciare che molta acqua passasse sotto i ponti. Comprendere qual è la differenza fra il superfluo e l’essenziale, tra il racconto autentico e la l’inautenticità di un racconto. Per capirlo abbiamo dovuto aspettare di arrivare a sessant’anni, di sentire il pentimento per il pregiudizio e cominciare a leggere il romanzo fino ad arrivare a metà di pagina 65, dove dice che verso i sessanta, quando la strada alle tue spalle è più lunga di quella che hai davanti, vedi una cosa che non avevi mai visto prima: la via che hai percorso non era dritta ma piena di bivi, ad ogni passo c’era una freccia che indicava una direzione diversa. Qualcuna di queste deviazioni l’hai imboccata senza accorgertene, qualcun’altra non l’avevi neanche vista; quelle che hai trascurato non sai dove ti avrebbero condotto, se in un posto migliore o peggiore; non lo sai ma ugualmente provi rimpianto. Potevi fare una cosa e non l’hai fatta, sei tornato indietro invece di andare avanti.
Bisogna arrivare al punto del libro dove dice che lungo i bivi della tua strada incontri le altre vite, conoscerle o non conoscerle, viverle o non viverle a fondo o lasciarle perdere dipende soltanto dalla scelta che fai in un attimo; anche se non lo sai, tra proseguire dritto o deviare spesso si gioca la tua esistenza, quella di chi ti sta vicino.
Già, forse quelli che ora contano intorno ai sessant’anni, hanno trascurato qualche strada, potevano fare qualcosa e non l’hanno fatta, sono tornati indietro invece di andare avanti. Forse adesso nascondono qualche rimpianto.
Susanna Tamaro li aveva avvertiti. Ma a quel tempo loro avevano pregiudizi veniali e il grande culto del romanzo impegnato. Che adesso hanno qualche difficoltà a capire cosa sia.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 22 dicembre 2019]