L’ultima edizione dell’indagine PISA si è svolta nel 2018. Vi hanno partecipato studenti di 79 paesi, dall’Albania al Viet Nam (in ordine alfabetico), in totale circa 600 mila studenti, rappresentativi di circa 30 milioni di loro coetanei. La rilevazione si concentra sulle competenze acquisite in lettura (e capacità di comprensione di un testo), matematica e scienze. Sgombriamo il campo da un equivoco, evitiamo inutili polemiche. Concentrare l’attenzione sul possesso della lingua materna (nel nostro caso l’italiano), sulle abilità in matematica e in scienze, non vuol dire che altre discipline siano poco significative o trascurabili. Per un giovane mediamente colto e informato è importante ricordare le opere e gli autori più rilevanti della letteratura, saper cogliere gli snodi e le tappe fondamentali della storia, conoscere le strutture economiche e geografiche di una regione o di una nazione, ecc. Ma la conoscenza adeguata e non settoriale della propria lingua, l’apprendimento del metodo logico-matematico, la valorizzazione delle cognizioni e dei prodotti nati dalla scienza, sono elementi indispensabili per affrontare le diverse circostanze della vita associata e fattori decisivi per lo sviluppo della creatività e degli strumenti concettuali. Privo di questo bagaglio intellettuale, l’individuo fatica a trovare il proprio posto nella società.
Nel 2018, l’Italia ha ottenuto un punteggio inferiore alla media OCSE in lettura e in scienze, in linea con la media OCSE in matematica. Ai primi posti nel mondo si collocano in questa edizione (come nelle edizioni precedenti) i paesi asiatici (Cina, Singapore, Macao, ecc.) e anche paesi europei come Finlandia ed Estonia. Se guardiamo alle nazioni con cui tradizionalmente siamo abituati a confrontarci, constatiamo che purtroppo in tutti e tre gli ambiti la prestazione media in Italia è inferiore, tra gli altri paesi, a quella di Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi, Polonia, Slovenia, Svezia e Regno Unito. Né possiamo consolarci constatando che stravinciamo su Macedonia, Kosovo, Algeria, Repubblica Domenicana. Anche il confronto tra le edizioni precedenti dell’indagine e quella attuale non è confortante. La prestazione media dell’Italia è diminuita, dopo il 2012, in lettura e in scienze, mentre si è mantenuta stabile in matematica. Se scomponiamo i dati italiani, analizzandoli regione per regione, emergono altri elementi preoccupanti o bisognosi di attenta riflessione. In lettura e comprensione del testo Trento e Bolzano raggiungono punteggi simili a quelli di Germania e Slovenia e superiori alla media nazionale; la Toscana ottiene punteggi vicini alla media nazionale; la Sardegna registra punteggi inferiori alla media nazionale e simili a quelli di Grecia e Turchia. In una edizione precedente di PISA gli studenti della Campania si collocavano nella parte più bassa della classifica al pari dei ragazzi delle Azzorre e dell’Argentina, affondando nelle ultime posizioni.
Se ne deduce che, a dispetto degli obiettivi tante volte proclamati da politici e da ministri, la formazione dei giovani non è uniforme nel territorio nazionale. E i risultati sono nel complesso insufficienti, anche se gli studenti italiani sono quelli che trascorrono più tempo sui libri: in media 25 ore a settimana sui banchi in classe e 21 a studiare, a casa. Ben 46 ore complessive rispetto alla media OCSE, che è di 44 ore. Finlandia e Germania dedicano alla formazione 36 ore a settimana, la Svizzera 38 ore: tutti con risultati migliori nell’apprendimento. Dunque il problema è di come si usa il tempo a disposizione. Tra il 2012 e il 2018, il tempo medio che i quindicenni in Italia hanno trascorso su Internet, in un tipico giorno feriale, è più che raddoppiato, passando da meno di due ore al giorno a circa quattro ore al giorno (di cui una a scuola).
Nella loro crudezza i dati sono inequivocabili. Risultano pertanto incomprensibili le reazioni di chi, operando nella scuola, si sente chiamato in causa, anzi messo in discussione. Le reazioni e i rifiuti vengono, in maggioranza, dalle regioni meridionali: comprensibilmente, perché al sud si stabilizzano i risultati peggiori. Molti docenti contestano la plausibilità delle rilevazioni PISA, sostenendo (senza entrare nel merito) che sono sbagliate, tarate su sistemi scolastici e su impostazioni didattiche specifici di altri paesi, garantendo che in realtà i professori italiani lavorano moltissimo e bene. Ma se ogni tre anni le indagini PISA ripetono cose più o meno identiche, se risultati non dissimili danno le prove INVALSI (acronimo di «Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione»), non possiamo mettere la testa sotto la sabbia e sostenere, aprioristicamente, che nulla di tutto ciò ci riguarda.
Un articolo di Rita Bortone apparso su questo giornale l’11 dicembre ragionevolmente e opportunamente si intitola: «I test OCSE-PISA e l’autodifesa sbagliata dei docenti». È un invito alla riflessione e al confronto delle opinioni in campo. Mi sarei aspettato repliche, magari smentite e contro argomentazioni da parte dei docenti chiamati in causa: se non ho visto male, nulla si è mosso. Nella parte finale di quell’intervento si ricordano gli inadeguati sistemi di formazione universitaria e di reclutamento dei docenti, il pansindacalismo dei genitori, pronti a reclamare senza fondamento voti alti per i propri pargoli e pargoletti. E, aggiungo, l’atteggiamento di alcuni giovani che, dentro e fuori la scuola, si lasciano andare a comportamenti irresponsabili, come i mentecatti che bullizzano compagni e disabili o vandalizzano gli addobbi natalizi in piazza Duomo a Lecce.
Preciso: non possiamo addossare alla scuola responsabilità “sociali” che non competono alla stessa. Nella scuola operano (accanto a pochi neghittosi) docenti bravissimi e impegnati che (per stipendi striminziti) ogni giorno si impegnano nel compito più difficile che esista, la formazione delle menti di bambini e adolescenti. Una brava professoressa tempo fa mi scrisse: le scuole sono «lasciate sole a combattere i “mali del mondo” (dal riscaldamento globale alla ludopatia, dal cyberbullismo ai disturbi alimentari e via dicendo). […] Inutile lagnarsi dei risultati se poi non si dotano le scuole di biblioteche, se non si fanno arrivare i libri nelle case in cui mancano, se non si investe in modo sistematico nella promozione della lettura. […] I dati sulla povertà dei ragazzi (economica ed educativa), sul numero dei lettori, sull’abbandono scolastico, sulla disoccupazione giovanile narrano tutti la stessa storia: il fallimento dello Stato nel rimuovere gli ostacoli materiali e morali per la realizzazione di una piena uguaglianza».
È giusto. Ma di fronte ad un sistema che mostra molte falle, esiste una sola strada. Rimboccarsi le maniche, lavorare seriamente, agire in prima persona senza aspettare aiuti esterni. In particolare nelle nostre regioni, dove i risultati sono obiettivamente non favorevoli. E dove le cose vanno male anche su altri piani, come dimostrano le rilevazioni ormai trentennali sulla qualità della vita; l’ultima è uscita il 16 dicembre, i dati sono impietosi, basta leggere. Negare l’evidenza, lamentandosi senza agire, è una di quelle «Colpe del sud» che Claudio Scamardella ha lucidamente individuato nel suo libro recente (Manni editore), la cui lettura è molto utile ai meridionali. Prendiamo in mano i nostri destini, è questa la strada della salvezza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 22 dicembre 2019]