Conservatorismo salentino

Il ragionamento si snoda a partire da una riconsiderazione della famosa questione meridionale, che per Donno è “una questione culturale, che attiene al modo con il quale governanti e cittadini del Sud interpretano la ‘dimensione pubblica’ ” (p. 11). I due mali del Sud sono il particolarismo e il localismo, che spingono “in direzione contraria alla cooperazione, alla progettualità solidale. Il localismo politico è la trasposizione nella dimensione territoriale della spiccata propensione individualistica, del familismo amorale, propri del costume diffuso del Sud” (pp. 11-12). Questa constatazione, in sé giustissima e condivisibile, induce l’autore a salutare con favore la decisione del governo Berlusconi di fondare una sorta di authority centralizzata che faccia “giustizia di un quindicennio di autonomie di regioni e province del Sud” (p. 11), in considerazione del fatto che le politiche dell’assistenza hanno fatto il loro tempo e non sono più riproponibili. Da una parte, dunque, Donno auspica la diffusione, soprattutto tra i giovani,  di “una cultura civica, fatta di riflessione autocritica” (p. 16), dall’altra vorrebbe limitare ogni libertà progettuale autonoma delle genti del Sud, poiché ha sfiducia nella capacità o volontà della classe dirigente locale di gestire il denaro pubblico senza malversazioni e ruberie. Sul che, non è dubbio che Donno abbia perfettamente ragione, poiché i continui scandali e i continui casi di corruzione confermano il giudizio dell’autore; e tuttavia come essere d’accordo con lui, quando sostiene che “i nostri giovani, come i loro nonni ieri, sono internazionalizzati, non temono la cosiddetta emigrazione” (p. 17)? “L’emigrazione dal Sud fu una grande pagina culturale e morale, che i giovani d’oggidì apprezzano, laddove, sino a un decennio addietro, appariva disdicevole riferire che padri e nonni avevan fatto gli emigranti. Ora la sfida del lavoro e del miglioramento, che costoro in gran parte vinsero, è considerata con orgoglio dai loro discendenti…” (p. 17). Credo che questa falsificazione della storia, fatta nel nome della lotta agli “stereotipi del catto-comunismo” (p. 17), debba essere individuata e smascherata come il presupposto ideologico del conservatorismo meridionale. Con l’argomento del miglioramento delle condizioni di vita delle nuove generazioni, infatti, si copre la dura lotta tra capitale e lavoro, in cui il capitale vincitore impose (e impone) anche la deportazione di intere masse contadine (oggi il fior fiore dei giovani laureati), che non ebbero la terra (come oggi non hanno il lavoro), ma solo una scatola di cartone per emigrare. Ancor oggi, di chi è la terra del Sud?

Bene dice Donno nel suo titolo di pagina 16: “Si va dove c’è lavoro, prima ragione di vita”. Certo, ma l’idea neanche tanto sottintesa è che a dirigere il movimento è il lavoro, non il lavoratore. In altri termini, è il mercato che decide dove il lavoratore deve andare, non viceversa. Così Donno può esser ben contento se nei nostri giovani sta nascendo “una cultura civica”; ma che se ne fanno di questa cultura, se essi sono semplicemente povera merce di scambio nel mondo del lavoro? In fondo, non è proprio la classe dirigente tanto biasimata da Donno la prima responsabile del mancato sviluppo del Meridione e, dunque, della nuova forzata emigrazione dei giovani verso il resto del mondo? Ma per l’autore il nostro è “un giovane meridionale ardimentoso” (p. 20), un nuovo ardito alla conquista del mondo. Per giunta, “i giovani che si muovono in cerca di lavoro e lo raggiungono, cominciando così a realizzarsi, danno un contributo forte al problema del Sud. Ne alleggeriscono le clientele, prosciugando l’acqua nella quale si muove la grandissima parte del personale politico meridionale” (p. 20). E’ vero il contrario: i giovani che vanno via non tornano più, depauperando così il tessuto sociale del Meridione. Inoltre, chi va via è esattamente chi non fa parte delle clientele e delle consorterie e non ha nulla a che spartire con il personale politico meridionale. Spesso va via per non cedere a ricatti e compromessi. Il giovane corrotto, invece, rimane perché il politico gli fornisce un posto, e rimanendo perpetua all’infinito questo stato di cose. Con questo non si vuol dire che tutti quelli che lavorano nel Sud siano corrotti – ogni generalizzazione appare inevitabilmente fuorviante -: ma è altrettanto vero che non corrisponde a verità quanto scrive Donno, e cioè che “i giovani del Sud volano via, senza rimpianti”, come recita un altro titolo (p. 21). E che cosa dovrebbero fare, mettersi a piangere, sapendo di lasciare un mondo inospitale, dove non avrebbero nulla da fare senza scendere a patti coi poteri locali? A questi “giovani meridionali ardimentosi” l’autore augura buona fortuna. Ogni volta che qualcuno parte, le classi dirigenti locali tirano un sospiro di sollievo: uno in meno da “sistemare”, pensano, ovvero da corrompere, da inglobare nel sistema delle clientele, dove purtroppo non c’è posto per tutti. Donno fa il loro gioco, augurando agli arditi buona fortuna! In realtà, non c’è nessuna fortuna in tutto ciò, ma solo la dura necessità del lavoro che i nostri giovani potranno trovare solo altrove. Un lavoro precario, sottopagato, spesso in nero, come tanto lavoro precario, sottopagato, spesso in nero, che una gran parte della classe imprenditoriale salentina fornisce a coloro che rimangono. Ma di questi temi, che fanno la vera questione meridionale insoluta dall’Unità d’Italia ad oggi, Donno non si occupa, preferendo lanciare i suoi strali contro la cultura no-global, erede della cultura comunista-gramsciana, con le sue pulsioni anticapitalistiche e antiamericane, contro il cattocomunismo, gli intellettuali professionisti del Meridionalismo, contro il “pensiero meridiano”, ecc.: cortine fumogene che nascondo la realtà della vera condizione del Sud, in cui si continua un’alleanza strategica tra classi dirigenti locali e capitale internazionale, in cui le prime non esitano a sacrificare il destino dei giovani sull’altare del profitto capitalistico, avendone in cambio la perpetuazione del proprio potere.

Di tutto questo Donno sembra non avere coscienza (o forse confina la questione nel zona d’ombra di una cultura gramsciana in ritardo?), preferendo limitare la sua battaglia al rinnovamento morale della classe dirigente salentina, chiamata ad una oculata e onesta gestione del denaro pubblico. “Il cuore della questione meridionale, egli dice, è nella gestione amministrativa, nazionale e locale degli interventi” (p. 52), o, per dirla in altre parole: “Il problema oggi è questo: in che modo si potrà ricostruire quell’antico senso di comunanza solidale?” (p. 56). La risposta di Donno è nello spostamento del centro direzionale di pianificazione della spesa pubblica fuori dal Sud, presso un’autorità (l’Agenzia per il Sud) che non sia collusa con le classi dirigenti locali. Ma, come si è detto, è una soluzione fortemente illiberale, nella quale si sottintende con la irresponsabilità, l’irredimibilità delle genti del Sud. In realtà, ogni prova di forza suggerisce l’impotenza della proposta politica che la determina. Non si ha il coraggio di dire, invece, che è nella logica dell’attuale mercato, disciplinata solo dal capitale internazionale e mediata dalla ingordigia della classe dirigente nazionale e locale, è in questa logica il vero problema, il male incurabile del Sud. Quale “comunanza solidale” potrà mai esserci tra le nostre genti e una multinazionale che dall’oggi al domani decide di delocalizzare la sua impresa, senza che la politica voglia muovere un dito per impedirlo? E così pure, una volta considerato che “non esiste una Banca propria del territorio meridionale; esistono le filiali delle banche del Nord più attente alla raccolta che agli impieghi (ho taciuto diplomaticamente sul fatto che, dopo aver raccolto risparmio dal Sud, queste banche lo impiegano quasi esclusivamente nel Nord!)” (p. 32), perché non se ne trae la normale deduzione che siamo in presenza di un annoso problema di sfruttamento del capitale che si alimenta facendo terra bruciata intorno a sé?

Notevoli e condivisibili le pagine nelle quali Donno depreca lo sperpero di denaro pubblico nelle estati salentine. Il conto che fa delle spese sostenute con soldi pubblici nel solo mese di agosto 2009 in “Salentoland” è spaventoso: 17 milioni e 540 mila euro andati in fumo in feste paesane, sagre, concerti, “il parco divertimento più grande del Mezzogiorno” (pp. 95-96). Ora, va bene deprecare e spiegare che questo è il frutto di una classe dirigente sprecona e corrotta; ma, oltre ogni moralismo, va anche detto che il Salento in festa è ancora una volta il risultato di una demenziale politica che tende a occultare dietro gli apparati di lampadine luminose la scelta precisa delle classi dirigenti locali di immettere nel circuito del turismo di massa il nostro territorio, a qualunque costo; a costo cioè di drogare per due mesi all’anno il tessuto sociale destinato a fare i conti con una crisi di astinenza che durerà per tutti i mesi a seguire e che la popolazione sconterà in tutti i settori della vita associata: meno sanità, meno scuola, niente biblioteche, meno lavoro sano. Anche in questo caso, come si vede, capitale internazionale e classe dirigente locale si danno la mano, a danno di chi in questo perverso meccanismo rimane irretito, cioè tutti noi.

Non seguiremo nei dettagli delle varie questioni l’argomentare dell’autore di questo libro. Ci basti considerare che esso rappresenta davvero, nel suo piccolo, una summa del conservatorismo salentino, che, come spesso accade, si limita alla stigmatizzazione moralistica del presente al fine di evitare un’analisi concreta e realmente critica delle ragioni che hanno portato a questo stato di cose.

Pertanto, dal momento che nei lontani anni Sessanta Gianni Donno fu allievo al liceo di Nicola Carducci, non sarà fuor di luogo chiedergli in conclusione: che cosa oggi penserebbe di tutta la questione il “maestro” Carducci (p. 98)?

La nostra terra è ricchissima. Giovani, non partite!

di Gianluca Virgilio

“Insomma, piaccia o non piaccia, siamo nel sistema capitalistico e, in mancanza di alternative (chi le ha, faccia un passo avanti!) bisogna tenerselo…”.

Grazie a Gianni Donno per avercelo ricordato nella sua garbata e argomentata risposta ne “Il paese nuovo” del 27 marzo 2010 (quasi un’autorecensione) alla mia recensione del 24 u. s. del suo ultimo lavoro edito da Congedo, Cresce un altro Sud.

Le diverse posizioni sono chiare, mi pare, ma forse vale la pena di aggiungere poche righe, non certo per avere l’ultima parola (non sta a me dirlo), quanto per tirare le somme di un querelle dall’esito nient’affatto scontato.

Il discrimine mi pare sia nel diverso approccio al sistema capitalistico, che per Donno sembra essere l’unico sistema economico possibile, almeno nella contemporaneità del nostro vissuto, un sistema che ha delle distorsioni da correggere, ma che dobbiamo tenerci caro, perché non c’è alternativa: il capitalismo come fato, insomma, cui non ci si può sottrarre; per me, invece, il capitalismo, come tutte le cose umane che nascono crescono e muoiono, è un sistema che prima o poi è destinato a finire. E’ caduto l’impero romano, è stato travolto l’impero degli Inca e dei Maya, quello millenario dei mandarini cinesi: perché non dovrebbe finire il sistema capitalistico contemporaneo, e dar luogo a qualcosa di diverso?

Non ho un sistema alternativo da proporre, non ce l’ha nessuno, e chi dice di averlo si prepara solo a dominare gli altri. Ma uno sguardo alla realtà odierna, alle sue inumane diseguaglianze, mi induce a credere che questo non sia il migliore dei mondi possibili e a cercare una via di fuga. Me la fornisce Gramsci? Ben venga. Lo studiano in tutto il mondo, solo in Italia facciamo gli snob.

Ci dobbiamo tenere questo mondo così com’è, solo con qualche aggiustamento moralistico? Il punto di vista conservatore risponde di sì, anzi risponde che esso va alimentato con forze nuove e fresche. Partite, giovani, partite, imitate i vostri padri! Partono i neri dall’Africa, partono i giovani dal Sud d’Italia: è la stessa cosa, mutatis mutandis. Partite, dunque, giovani. Non tornerete più, e allora non avrete problemi, oppure tornerete da vecchi, all’età della pensione, forse ben sistemati oppure poveri come prima. In ogni caso, troverete che nulla qui è cambiato davvero. Lo stesso ambiente ostile, lo stesso personale politico che somiglia più a un’associazione a delinquere che a una vera classe dirigente. Sono poche le generazioni di migranti italiani da centocinquant’anni a questa parte che hanno fatto questa esperienza? Bene, come volevasi dimostrare.

E allora, caro Gianni Donno, prendo atto dei suoi buoni propositi, ma ai giovani mi sento di dire ben altro: a dispetto di chi vorrebbe farvi partire, restate, restate fino alla fine, questa terra è ricca, ricchissima, e ci sono conservate risorse per tutti, solo che sono nelle mani di pochi, la nuova classe dei ricchi globali, che di voi se ne infischiano, considerandovi alla stregua di carne da macello. Restate, perché una terra senza giovani è un deserto e perché soltanto restando potrete denunciare le malefatte dei centri di potere locali che sulla diseguaglianza sociale del moderno sistema capitalistico costruiscono le fortune politiche e le ricchezze economiche di pochi. Non vi sarà facile sopravvivere, ma il mondo sarà migliore grazie alla vostra presenza, almeno un po’ più gaio.

[Marzo 2010]

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