Però si potrebbe fare l’ipotesi che alla narrativa di questo secolo interessi indagare proprio quello spazio, soltanto quello spazio, e la solitudine che abita quello spazio. Si potrebbe pensare che non le interessino gli orizzonti, oppure che le interessino esclusivamente quelli che si possono vedere dalla finestra della cucina, e la finestra della cucina si affaccia su un cortile in cui è stato depositato il mobilio dismesso da tutto il condominio di questo secolo. Dalla finestra si vede questo e un cielo di antenne paraboliche. Niente più. Le altre due camere non hanno finestre. Dalla strada arrivano i rumori confusi della città. Si immagina il caos. Niente più.
La narrativa di questo secolo vuole indagare quello spazio ristretto, avventurandosi, quando è possibile, nel cortile con il mobilio che il secolo ha dismesso. Probabilmente perché ha sospettato che in fondo tutto l’universo si ritrova nelle due camere e cucina, e tutta l’umanità nella solitudine assoluta di chi abita quello spazio, e l’avventura si riduce allo sguardo nel cortile del condominio. La narrativa vuole comprendere una solitudine. Come ha sempre fatto, in fondo, per secoli. Ma in questo tempo la solitudine è diversa. E’ una solitudine che a volte non si vede. Che si sente soltanto. Che ciascuno sente per se stesso, nello spazio e nel tempo che gli viene dato. E’ una solitudine che forse non dovrebbe nemmeno essere definita in questo modo, che avrebbe bisogno di una diversa denominazione, anche perché non di rado mascherata, nascosta, sotterrata nella falsa condizione di una comunicazione totale e immediata, praticata, come si dice, in tempo reale. Forse è di quella solitudine che la narrativa vuole comprendere i significati: della solitudine affollata di relazioni virtuali. Oppure: di una solitudine nel contesto di una esistenza virtuale.
Nelle due camere e cucina tenta di elaborare trame che rappresentino la trama di questo tempo, intrecci che ne rappresentino il groviglio anche quando il groviglio si propone con una falsa forma di linearità, tenta di strutturare storie che si facciano metafore della complessità esistenziale anche quando la complessità si traveste di semplicità, di indiscutibile evidenza. Forse si tende anche alla ricerca degli elementi che ribadiscono il rapporto fra autobiografia e storiografia, fra la storia personale e quella collettiva.
Fino ad un certo punto, fino a quando sono state possibili le grandi narrazioni, le storie hanno potuto contare su vasti paesaggi, personaggi giganteschi, viaggi entusiasmanti, fantascienze ardite, strutture possenti, metafore maestose. Poi i personaggi si sono fatti piccoli, fragili, uomini senza qualità, esistenze alienate, inautentiche identità. Le strutture sono diventate essenziali. I viaggi si sono conclusi e il livello delle metafore si è quasi azzerato. I paesaggi si sono trasformati in schiacciati fondali di scena, immobili, immutabili. I vasti paesaggi si sono ristretti, ridotti ad interni anonimi e disadorni.
I significati che avevano l’imponenza di macigni si sono polverizzati. Sì, due camere e cucina, con vista sul cortile di mobilio in disuso. In questi spazi adesso si muove la narrativa. La sola cosa che le resta in comune con la narrativa dell’Ottocento e di un certo Novecento, che le resterà in comune con la narrativa del tempo venturo, è l’ansia, l’ambizione, l’arroganza di capire il mondo e di rappresentare la disperazione di quella comprensione.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Martedì 17 dicembre 2019]