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L’idea comunista è stata per più di un secolo fonte di speranza per milioni di uomini, la speranza in una società più giusta, priva di soprusi e prevaricazioni, una società fondata sull’eguaglianza, sulla solidarietà, una società felice. Quando una dottrina promette ciò che non si può realizzare vuol dire che essa è ingannevole. E non vi è dubbio che artefice dell’inganno è stata la borghesia. Quel che dico suonerà come un paradosso, ma la storia è fatta di paradossi. Il comunismo è lo strumento inventato dalla borghesia per sottomettere psicologicamente le masse proletarie al suo servizio, dando loro la speranza in un avvenire migliore (il sol dell’avvenire). La stessa organizzazione delle masse proletarie nel partito socialista prima e comunista poi, e nei sindacati, mi appare come una invenzione borghese mirante al controllo sociale, alla disciplina del proletariato, senza la quale davvero il proletariato sarebbe diventato una forza caotica dirompente. “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, sì, ma per essere meglio inquadrati e asserviti. Era questa l’intenzione di Marx e di Engels? Certamente no. Ma la storia si giudica da quel che è avvenuto, i fatti, e non dalle buone intenzioni, di cui, si sa, sono lastricate le strade dell’inferno.
La storia del comunismo ci insegna quanto già Machiavelli sapeva benissimo, e cioè che il potere si serve dell’inganno (la “golpe”) per raggiungere i suoi obiettivi, soprattutto quando ha paura che la forza (“il lione”) di cui dispone non sia sufficiente ad abbattere la forza di chi si vuol sottomettere.
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Scuola. Nel “la Repubblica” del 31 gennaio 2017, p. 30, Stefano Bartezzaghi, Se la pagella al figlio la dà il TAR, commenta la notizia secondo la quale una famiglia, non contenta del nove in pagella attribuito dai docenti al figlio, fa ricorso al TAR per avere il dieci: “Un buffo aforisma dice: “Chi vince non sa cosa si perde”. E’ per questo che il massimo dei voti veniva considerato, in passato, irraggiungibile o quasi: essere giudicati perfetti, non solo all’interno di un percorso di formazione, è rischiosissimo. Fa cedere le motivazioni, abroga tutti gli interrogativi su di sé che a quell’età (e non solo a quella) sono salutari, sostituisce alla legittima soddisfazione per un risultato parziale che è ottimo (qui, di nome come di fatto) una sazietà che non ha più vuoti da riempire.”
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Snobismo. L’abuso della lingua inglese è un segno dello snobismo dei cosiddetti intellettuali. Il sistema capitalistico attuale richiede la conoscenza di una lingua globale, l’inglese; e allora il cosiddetto intellettuale non ha dubbi: quella è la sua lingua, quand’anche debba spiegare Dante e la Divina Commedia.
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Rapsodo. Propriamente parlando, io non ho mai scritto un libro, nel senso che non ho mai pianificato e realizzato la scrittura di un libro. Ho invece raccolto e pubblicato in diversi libri quanto rapsodicamente mi è capitato di scrivere nel corso degli anni passati. Questo vuol dire ch’io non mi considero un professionista della scrittura, espressione che aborro, ma un uomo che scrive, riflette scrivendo, e poi, di tanto in tanto, mette insieme le disiecta membra perché non vadano disperse (dunque, temo quello che inevitabilmente, prima o poi, avverrà), e perché dall’insieme il pensiero risulti più chiaro e coerente, direi sistematico, se questa parola non apparisse troppo ambiziosa. Diciamo pure che sono “il rapsodo” dei miei stessi scritti.
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Il tempo. Ognuno di noi ha a disposizione un segmento del tempo tutto suo, non coincidente con quello di nessun altro. Eppure tutti i segmenti di tutti gli uomini si intersecano, sicché, se noi proiettassimo questa idea su di un piano, vedremmo una rete fittissima di segmenti intrecciati, la mappa del tempo degli uomini. Questa rete rappresenta il destino comune degli uomini, ciascuno dei quali, pur avendo un tempo personale, tutto a sua disposizione, è legato al tempo degli altri. Il nostro vivere sociale corrisponde dunque al nostro vivere in un tempo comune. Il suicida è colui che spezza il proprio segmento temporale, rompendo, per quel che lo riguarda, la rete del tempo che unisce gli uomini – il che spiega perché ogni società aborre il suicida -.
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Il libro di Giuseppe Montesano, Lettori selvaggi, 2016, è un libro di 1920 pagine! Si fatica a tenerlo in mano. Certo, sia l’autore che l’editore hanno avuto un bel coraggio a proporre al lettore un simile libro-monstrum. Il bello è che Montesano, a p. 11, scrive candidamente: “… abbiamo un assoluto bisogno di sintesi, per trasformarci senza perderci.” Figuriamoci se non avessimo avuto bisogno di una sintesi, quanto avrebbe scritto il Montesano? Un’altra Enciclopedia britannica!
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Eventi importanti. Quando sento rievocare un evento piuttosto notevole della nostra storia recente, mi capita di pensare: dov’ero io nel momento in cui appresi la notizia? Ed ecco che subito mi si presenta alla memoria la scena di quel luogo preciso: la sera del 20 luglio 1969, a Leuca, presso l’Hotel Terminal, davanti ad un televisore in bianco e nero, in mezzo a tanta gente entusiasta per lo sbarco degli astronauti sulla Luna; eccomi il pomeriggio del 2 novembre 1975 mentre sfreccio in bicicletta per le strade di Galatina, mandato da mio padre, alla volta dell’edicola dove avrei comprato i giornali che davano ampia notizia dell’uccisione di Pasolini; eccomi la mattina del 16 marzo 1978, in classe – facevo il primo liceo -, quando giunge la notizia del rapimento di Aldo Moro – qualcosa di molto grave, le cui implicazioni però mi sfuggivano del tutto; 11 settembre 2001: eccomi sulle scale di casa, che rientro da scuola: Ornella mi accoglie sulla porta dicendomi: “Sono crollate le Torri gemelle di New York!”. Queste notizie hanno procurato alla nostra memoria una ferita che, pur cicatrizzandosi, non consente la dimenticanza della scena ed anzi, ogni volta che se ne parla, la riporta alla mente.
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Il tempo. Se il tempo è un’invenzione umana e se è possibile immaginare un mondo senza la presenza dell’uomo, allora è anche possibile ipotizzare un mondo privo di tempo. Uno scoglio proteso sul mare, una roccia inaccessibile dove il pescatore più temerario non ha mai messo piede, questo luogo che non sa cosa sia l’uomo, non è legittimo dire che sia un luogo senza tempo? Insomma, è l’uomo che fa il tempo, e il tempo senza l’uomo non esiste. Così, quando noi entriamo in una vecchia casa disabitata, diciamo che il tempo si è fermato, e con ciò vogliamo dire che, non essendo più presente l’uomo in quella casa, anche il tempo è assente (l’orologio si è fermato). Forse è questo il fascino che deriva da uno scoglio solitario e irraggiungibile proteso sul mare o da una vecchia casa disabitata, che il tempo non ci sia più e tutto si presenti nel suo stato aurorale, come quando l’uomo non c’era ancora e il mondo viveva al di fuori del tempo.
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Acronia. Il fascino del non-tempo. E’ il ragazzino che avverte più di tutti il fascino della casa disabitata o dello scoglio inaccessibile (come di qualunque altro luogo disantropizzato). Egli infatti non ha ancora imparato bene che cosa sia il tempo, non sa nulla di preciso della scansione temporale a cui si sono sottomessi gli uomini e non sa nulla di preciso della morte, sebbene già questi pensieri affollino confusamente la sua giovane mente. Pertanto, nella casa disabitata trova una condizione di non-tempo, di acronia, che lo incanta, e capisce che quella cosa invisibile e astratta che continuamente lo incalza e non lo lascia in pace, il tempo, è possibile che finalmente si fermi; così, raggiungere un luogo inaccessibile come uno scoglio proteso sul mare, dove l’uomo non ha mai messo piede, è per il ragazzino non solo un’impresa meritevole di gloria, ma anche un modo particolare di sottrarsi al tempo, andando fuori dal tempo. Per lo stesso motivo nelle torride estati dell’infanzia il ragazzino costruisce una capanna nel giardino di casa o sopra un albero, dove nessuno possa portare l’incalzare del tempo che non dà tregua. Fino al giorno della prima comunione, quando egli ha dieci anni e il padrino gli regala… che cosa? un orologio!
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Il corretto comportamento tra gli uomini. Ce lo insegna Bacone, La dignità e il progresso del sapere divino e umano, cit, p. 317: “E se il controllo dell’espressione ha tanta importanza, tanto più ne ha quello del discorso e del comportamento relativo al parlare. E il vero modello di ciò mi sembra essere ben espresso da Livio, sia pure ad altro proposito: “Per non sembrare né arrogante né servile: dimenticando o l’altrui o la propria libertà” [Livio, Ab urbe condita, XXIII, 12]. Il comportamento nel suo complesso deve salvare la dignità della persona senza interferire nella libertà degli altri.”
Il corretto comportamento dell’uomo consiste in un accorto muoversi tra le persone, a cui conviene accostarsi con grande prudenza, salvaguardando la propria libertà senza avvilire l’altrui, astenendosi da ogni arroganza e da ogni atteggiamento servile. Infatti, bisogna essere consapevoli del proprio valore ma anche riconoscere quello degli altri, con cui si ha a che fare. Soprattutto, ci vuole equilibrio nell’uso della parola, che deve essere “controllata” e coerente con il nostro comportamento.
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Saggezza e fortuna. Scrive Bacone, La dignità e il progresso del sapere divino e umano, cit, p. 336: “… nulla è più avveduto che accordare le ruote del nostro animo a quelle della fortuna e farle girare in armonia con esse.” Ho pensato a Pierre-Auguste Renoir e alla sua teoria del turacciolo.
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Post-mortem. Esumazione delle spoglie di nonno Pietro, morto nel febbraio del 1964, quando io avevo 11 mesi; di lui, dunque, non conservo alcun ricordo, ma solo aneddoti che mi derivano dai racconti famigliari. Il necroforo apre la bara e insieme constatiamo che il passaggio dei resti dalla tomba all’ossario non si può fare perché il cadavere è mummificato. Per dimostrarmelo, con un ferro cerca di rompere le ossa della mummia, ma non ci riesce; a me il cadavere sembra incartapecorito, come fosse fatto di duro cuoio. Il necroforo richiude la cassa. Che cosa ho provato durante la pietosa incombenza? Nulla, proprio nulla, eccetto un vivo senso di curiosità e la conferma della nostra finitudine di uomini: ecco quel che fra non molto diventerò anch’io, mi sono detto.