Sgommò, frenò di colpo e disse:
– Ragazzi, anche i casenovesi hanno cominciato la raccolta. E stanno molto più avanti di noi. Ma il peggio è che tra di loro ho intravisto Gino Pesciceḍḍu.
– Com’è possibile?! – replicò in tono alterato Nino. – Fa parte del rione Centru storicu… Maledetti! Si sono alleati contro di noi!
– No – aggiunse Totò – Gino si è semplicemente fidanzato con la sorella di Tonino Provuleḍḍa.
Rimanemmo tutti basiti. Tonino Provuleḍḍa era il capo indiscusso dei casenovesi.
– Ma ancora non vi ho detto tutto.
– E parla, no? – sbottò Rocco – Che aspetti?
– Mio cugino Nicola, che a scuola sta seduto allo stesso banco con il fratello di Gino Pesciceḍḍu, ha saputo che nella raccolta a favore delle Casenove Gino ha trascinato tutta la razza. E voi sapete quanto è lunga quella razza.
Restammo tutti a bocca aperta. Una scorrettezza simile non si era mai vista né sentita nella storia delle fòcare. Una razza di un rione che raccoglieva per un altro rione! Non c’era più religione!
Dopo dieci minuti la notizia aveva fatto il giro del Cornularu.
Gli effetti nefasti di quella strana novità non tardarono a farsi sentire. Molti ragazzi che negli anni passati si erano dati da fare senza riserve, apparivano svogliati, demotivati, quasi apatici. La raccolta procedeva a rilento.
Il gruppo della piazza del rione, di cui facevo parte, era quello che continuava ad impegnarsi di più; ma eravamo quattro gatti e per giunta quasi tutti piccoli.
Al limite estremo del Cornularu un fulmine aveva bruciato una buona metà di un vecchio enorme carrubo. Ovviamente i rami e le fronde caduti erano già stati portati alla fòcara. Due grossi rami, ancorché bruciacchiati, erano rimasti attaccati all’albero.
Antonio, il più agile e leggero tra tutti noi, decise di arrampicarsi sul carrubo per tagliarli. Lo accompagnavamo io e Donato, suoi compagni di scuola e amici inseparabili.
In men che non si dica, armato del serracchiu che suo zio usava per la rimonda degli ulivi, salì sull’albero. Dopo cinque minuti il primo ramo era già piombato a terra. Per segare l’altro, salì ancora più in alto. L’operazione, però, era complicata dalla presenza di rami e frasche della parte superiore che non gli consentivano un taglio agevole.
Benché provato dallo sforzo che la posizione scomoda aumentava notevolmente, Antonio aveva comunque tagliato quasi del tutto anche il secondo ramo, quando quello, con un sordo crepitio, si spezzò di botto. Improvvisamente gli venne a mancare il punto su cui stava facendo forza per tagliare, si sbilanciò, perse l’equilibrio e cadde a terra insieme al ramo e al serracchiu.
Sentii Donato che esclamava:
– Santa Lucia, salvalo!
Ci precipitammo a soccorrerlo. Dopo appena un minuto sopraggiunse di corsa Coletta, il contadino che stava lavorando nel fondo accanto. Mentre ci sgridava per l’imprudenza commessa, sollevò Antonio da terra e senza più dire una parola lo portò in braccio fino a casa.
Per fortuna Antonio non era caduto in maniera scomposta e, tranne una storta al piede sinistro e qualche graffio al viso, non sembrava aver riportato altri danni. Sua madre, saputo dell’invocazione di Donato, gridò al miracolo, accese un cero a Santa Lucia e fece dire a don Luciano una messa cantata.
Il “miracolo” riaccese le speranze dei cornularesi e ne decuplicò forze ed impegno. La raccolta ebbe una notevole impennata e superò quella dei nostri competitori. Tuttavia, dopo pochi giorni, i casenovesi erano di nuovo più avanti di noi.
Mancavano appena tre settimane all’accensione delle fòcare. Non ce la potevamo fare. La partita era irrimediabilmente persa. Lo scoraggiamento si impossessò definitivamente della maggior parte dei ragazzi: ormai non si raccoglieva quasi nulla.
Era passata un’altra settimana quando Fernando, genietto del rione che ogni anno vinceva la borsa di studio, ebbe un’idea formidabile.
– Ragazzi – disse – qui dobbiamo ispirarci al cavallo di omerica memoria.
– E che vuol dire? – domandò Nino, che di Omero ignorava persino il nome.
– Quando gli Achei finsero di abbandonare l’assedio e salpare, i Troiani abbassarono la guardia, abbatterono una parte delle mura ciclopiche e portarono il cavallo di legno dentro la città. Noi dobbiamo fare come Ulisse.
– Va bene. – disse Rocco – Ma in pratica che dobbiamo fare? Parla chiaro, Fernando!
– È semplice. Dobbiamo far credere che ci siamo arresi. Portiamo allo spiazzo poche frasche e il grosso della raccolta lo nascondiamo nella masseria abbandonata di Giovanni Pitaccia. All’ultimo momento lo tireremo fuori. Vedrete che, arrivati a un certo punto, i casenovesi, sicuri della vittoria, interromperanno la loro raccolta. Il piano, però, può funzionare solo ad una condizione: non ci devono scoprire. Quindi, acqua in bocca, ragazzi!
La proposta di Fernando venne accolta all’unanimità. I casenovesi abboccarono all’amo e, quando videro che la loro fòcara era ormai il doppio della nostra, si rilassarono, sedendosi, come si suol dire, sugli allori.
Nel primo pomeriggio del dodici dicembre scattò l’operazione “Trainella”. In poche ore, grazie alla grande trainella di Gino Fusci, storico distributore a domicilio di casse di bibite della locale ditta Beviben, aschie tronchi sarcine e sarmenti furono trasportati dalla rimesa della masseria Pitaccia allo spiazzo di Santa Lucia.
La fòcora era enorme! Almeno una volta e mezza quella delle Casenove.
Finito il falò, come ad un segnale convenuto, la folla si aprì silenziosamente. Antonio, miracolato da Santa Lucia, avanzò con il braciere, imbracciò la pala posta sul muretto e lo riempì quasi fino all’orlo. Non volava una mosca. Poi la madre di Antonio esclamò: – Viva Santa Lucia!
Un grande applauso sottolineò la partecipazione, la gioia e la devozione di tutto il rione. Infine, secondo un’usanza che affondava le sue radici nella notte dei tempi, ogni famiglia riempì il suo braciere con i tizzoni “santi” della fòcara e se li portò a casa.