di Antonio Errico

“Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara.- E l’ho ingiuriata”.
Soltanto una creatura che gioca d’azzardo con il linguaggio e con la vita, uno che non ha niente da vincere e niente da perdere, soltanto un ragazzo crudele, un vecchio saggio, un acrobata che cammina sul filo senza rete sotto, soltanto un poeta capace di dare morsi al cielo, che a ventiquattro anni ha scritto tutto e dopo quell’età non ha niente da scrivere più, oppure non vuole scrivere più, può pronunciare parole come queste. Soltanto Arthur Rimbaud poteva cominciare in questo modo la sua Stagione all’inferno: in questo modo impietoso, eccessivo, perforante, insolente, beffardo. Definitivo, estremo. Come se dopo quella tenerezza verso la Bellezza, dopo aver sentito il suo sapore amaro, dopo l’ingiuria che le si è sputata sulla faccia, non ci fosse nulla da scrivere più, nulla che valesse la pena di scrivere più. Perché al disfacimento della bellezza corrisponde quello della possibilità che ha la parola.
Diceva Johann Wolfgang Goethe: un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più.
Si fa l’abitudine anche alla bellezza: fino al punto da non sentirne più l’attrazione, da non avvertirne più la seduzione. Accade quando la meraviglia, lo stupore, si smorzano fino a spegnersi completamente. Accade quando non si sa o non si vuole rinnovare il pensiero di fronte alla bellezza, quando non la si reinterpreta e non la si pone al confronto con il proprio tempo e con la propria condizione interiore.
Si esce da un vicolo trovandosi davanti allo splendore di una cattedrale barocca e quella cattedrale non è altro che pietra su pietra. Si fa una strada, una mattina d’inverno, dalla quale si vede un mare che è la rappresentazione della potenza della natura, ma si guarda distrattamente solo un mare in una giornata d’inverno.